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Droga, Meloni: “Pugno duro, la trasgressione è non farsi”

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Viaggio del Giornale.it nel mondo giovanile in occasione del lancio del romanzo inchiesta Unhappy hour. Il ministro accusa i cattivi maestri e la sottocultura post-sessantottina: “La vera trasgressione è mettere davanti a tutto l’autonomia del pensiero libero” di Andrea Indini
Roma – Dito puntato contro “quei cattivi maestri che dal cinema, dalla televisione, dalla musica, bombardano incessantemente i giovani con messaggi fuorvianti”. Ma non solo. Anche la sottocultura post-sessantottina, rea di aver propinato “un’assurda teoria secondo cui a fianco delle droghe che fanno male ci sarebbero quelle innocue”. Il ministro della Gioventù, Giorgia Meloni, non fa sconti e si fa baluardo per la tolleranza zera all’abuso di stupefacenti e alcolici. “La scuola, la famiglia, la società – spiega il ministro – hanno colpe solo se, per indifferenza o disimpegno, abdicano al loro ruolo educativo nei confronti dei giovani”. Da qui l’impegno per una campagna per sensibilizzare i giovani e combattere un fenomeno – quello dello sballo – che sta distruggendo troppe vite.


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OLTRE IL PIL E PER L’AMBIENTE IL BHUTAN SCEGLIE LA FELICITA’

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C’è un piccolo stato himalayano, il Bhutan, dove il rispetto, la cura e l’amore per l’ambiente montano non viene inteso solo come un dovere civico, ma come una reale componente della “felicità nazionale“. Questo piccolo paese ha infatti adottato uno modello di sviluppo economico che è un esempio illuminato per una zona che, come spesso si sente relativamente all’Himalaya, presenta importanti problemi di gestione sia economica che ambientale.
Da tempo si dice che il Pil-Prodotto interno lordo, indicatore che misura il valore dei beni e dei servizi prodotti da un paese, non dovrebbe essere assunto come l’unico o il principale indicatore dello sviluppo economico. Il Bhutan, che solo nel 2008 si è dato per la prima volta un governo eletto dal popolo, ha tradotto queste critiche in realtà, sostituendo al Pil (Gdp nei paesi anglosassoni) laGross National Happiness (Gnh), ovvero la Felicità nazionale lorda.


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Anno delle Biodiversità e degli eco-guai

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BERGAMO -- Il 2010 sarà l'Anno Internazionale della Biodiversità. L'annuncio e il lancio dell'iniziativa è stato dato dall'Onu a Berlino nei giorni scorsi. E' il sintomo di un'accresciuta sensibilità ambientale, ma sul tavolo restano problemi molto concreti ancora da risolvere. 

Attraverso questa iniziativa, le Nazioni Unite intendono chiamare i Paesi membri a un'azione puntale per arrestare la quotidiana perdita di biodiversità, passando dagli impegni assunti sulla carta ad interventi concreti. Sì perchè nonostante i proclami e le buone intenzioni, gli studi indicano che le biodiversità, ovvero le diverse varietà di piante e animali, vanno pian piano assottigliandosi.
 
Un fenomeno che si riscontra anche nel nostro paese che - per inciso - è il più ricco di biodiversità in Europa e sta facendo molto per la conservazione delle sue peculiarità di flora e fauna. Se dal punto di vista istituzionale l'Italia è fra i primi posti in assoluto nella tutela dell'ambiente - anche se non abbiamo ancora firmato la Convenzione internazionale sulle biodiversità, siamo stati il primo Stato membro dell'Unione Europea che ha sottoscritto il "Countdown 2010", deciso a Malahide (Irlanda) nel 2004, e promosso la Carta di Siracusa nell'aprile 2009, nell'ambito del G8 Ambiente -, sul versante pratico qualche problema ce l'abbiamo anche noi.
 
Secondo i dati del Wwf, che ha inviato una lettera al presidente del Consiglio Berlusconi e ai ministri competenti - l'Italia ha un enorme ricchezza di biodiversità. La più grande d'Europa, ma anche una di quelle più a rischio. 
 
Secondo la ricerca condotta insieme a Legambiente, il nostro paese sarebbe un vero e proprio "hot spot" mondiale per la presenza di speci animali e vegetali diverse. Sono oltre 57mila le specie faunistiche presenti di cui l'8,6 per cento endemiche (ovvero esclusive del nostro territorio), e 12.000 le specie di flora, delle quali il 13,5 per cento residenti solamente in Italia.
 
Eppure questo ben di Dio ambientale si sta perdendo, denuncia la ricerca. Attualmente sono a rischio d'estinzione il 68 per cento dei vertebrati terrestri, il 66 per cento degli uccelli, il 64 per cento dei mammiferi, il 76 per cento degli anfibi e addirittura l'88 per cento dei pesci d'acqua dolce. Tra le minacce principali la modifica degli habitat e il consumo del suolo.
 
In Italia oltre 110 chilometri quadrati all'anno, o se preferite 200 metri quadrati al minuto, da ambiente naturale verrebbero, nei modi più svariati, cementificati. Questo provoca, in taluni casi un'alterazione dell'habitat d'intere specie, con conseguenze facilmente immaginabili.
 
Sulla progressiva perdita di biodiversità animali pesano ancora, all'alba del 2010, il bracconaggio ai danni di specie sempre più rare e la caccia eccessiva. Nei prossimi anni avanti di questo passo, avverte il Wwf, rischiamo di perdere specie come l'orso bruno, la lontra, il capovaccaio, l'aquila del Bonelli, la pernice bianca, la gallina prataiola.
 
Vedere un'aquila reale sulle nostre montagne è già una rarità, per la quale val la pena esprimere un desiderio: quello che questi meravigliosi animali non spariscano del tutto. Ne restano una decina di coppie nel Lagorai altoatesino e altre 450 nel resto del paese.
 
Quanto alla flora, la costante conversione del territorio da naturale a cementificato, non favorisce certo l'ambiente e le colture agricole. Un dato per tutti. Alla fine dell'Ottocento nel nostro paese c'erano 8000 diverse varietà di frutta: oggi ce ne sono poco meno di duemila. E il rischio che alcuni tipi particolari di arance, limoni, mele, pere, ciliegie, mandorle, varietà di angurie e meloni spariscano è molto concreto.
 
La standardizzazione delle colture e lo sfruttamento intensivo solo di alcune varietà sono problemi ancora irrisolti. Secondo la Fao, nell'ultimo secolo abbiamo perso il 75 per cento delle colture. Tradotto in soldoni, oggi tre quarti dell'alimentazione mondiale dipende solo da 12 specie vegetali e 5 animali. Frumento, riso e mais forniscono più del 60 per cento delle calorie che consumiamo.
 
Nelle lettere inviate al Presidente della Repubblica, ai Presidenti della Camera e del Senato, al Presidente del Consiglio, ai ministri dell'ambiente, degli esteri e delle politiche agricole, il WWF Italia indica come obiettivo prioritario per il 2010 la definizione in un'apposita Conferenza nazionale, aperta al contributo scientifico delle associazioni ambientaliste e dei maggiori esperti italiani. Da questo punto di vista potrebbero essere preziose la competenza e l'esperienza di enti di ricerca come il Comitato Evk2Cnr che si occupa di ricerca scientifica in alta quota, e che in Himalaya ha già messo in campo studi su ungulati e tahr e sui felini che li cacciano, primo fra tutti il meraviglioso leopardo delle nevi.
 
Far sedere intorno allo stesso tavolo - e soprattutto far dialogare - la scienza e la politica sarebbe già un risultato di grande rilievo. Fermo restando che lo scopo finale è quello di definire una strategia nazionale sulle biodiversità e, di conseguenza, redigere un piano d'azione sostenuto da adeguate risorse economiche. 


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Alpinismo estremo ed etica. E il valore della vita?

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BERGAMO – “Stile alpino”, “esplorazione”, “via nuova” e “leggerezza”. Ecco l’abracadabra dell’alpinismo odierno. Parole che solo a pronunciarle ti proiettano nell’elite degli alpinisti quelli veri, e che se applicate ti dispensano da qualsiasi critica perché rispondono all’etica alpinistica “giusta”. Ma, dopo l’ennesimo incidente mortale dell’anno, la domanda è inevitabile. Fino a che punto ci si può spingere? E’ giusto che nel nome di quest’etica assolutista si sottovaluti il valore della vita, o addirittura gli si giochi contro?

Siamo i primi ad amare la montagna, l’alpinismo e tutto ciò che vi ruota intorno. Lo dimostriamo tutti i giorni, nel bene e nel male, raccontando le loro storie. Lungi da noi l’intenzione di dar corda a chi usa l’infelice espressione della “montagna assassina” o a chi vede gli alpinisti come dei pazzi suicidi. Ma nei giorni scorsi ci siamo chiesti se non esista un limite.

La risposta a chi si sta domandando se non stiamo esagerando sono questi nomi. Tomaz Humar, Michele Fait, Roby Piantoni, Max Schivari, Serguej Samoilov, Oscar Perez, Piotr Morawski, Franc Oderlap, Cristina Castagna, Wolfgang Kolblinger, Go Mi Sun. E altri ancora. Non è la formazione dell’ultimo “dream team” diretto in Himalaya. Ma l’elenco dei morti degli ultimi mesi. Mesi, non anni.

“Scrivete sempre di morti”, è la frase che sentiamo ogni volta che succede un incidente. Quasi che la responsabilità dei fatti sia di chi li racconta e non di chi li fa. Quasi dovessimo far finta di niente, e continuare a guardare con i paraocchi un alpinismo idilliaco che sempre più spesso si trova a fare la conta dei caduti come un esercito in guerra. No, cari lettori. Questo non è giusto. “Noi non andiamo in montagna per morire, andiamo per vivere”, gridava Kurt Diemberger nel film “Karl”.

Ed è per questo che solleviamo la questione. Non per giudicare, ma per pensare. Per capire se questa “libertà assoluta” non sia in realtà una trappola. Una moda pericolosa, che attrae e poi tradisce. Siamo stati i primi a schierarci contro chi, di fronte alle tragedie dell’anno scorso, identificava la montagna e soprattutto gli ottomila come luogo di morte. Il dubbio è se non siano gli alpinisti stessi, in certi casi, a farlo diventare tale.

Ieri sera dipingevo, al corso di pittura, un ritratto di Simone Moro. Cinque dei trenta spettatori, tutti a digiuno di alpinismo, vedendo tuta d’alta quota e guanti, hanno chiesto orgogliosi del loro intuito: è Marco Confortola? No, dico io, è Simone Moro. Facce perplesse, nome mai sentito. Magari conoscono di più Confortola perché è della zona. Chiedo: seguite l’alpinismo? No, dicono loro, è quello a cui hanno tagliato i piedi. Non sapevano nemmeno cosa fosse il K2. Ecco l’immagine dell’alpinismo che ha la gente.

Cesare Maestri, uno che di certo non si è risparmiato in fatto di sfide al sapore di adrenalina, mi ha detto in una intervista, senza un attimo di esitazione, che “l’alpinista più grande di tutti i tempi è quello che rimane vivo”. Una lezione dimenticata?

Lo chiediamo a voi. Non pretendiamo di giudicare. E restiamo convinti che lo stile alpino, pulito e rispettoso della montagna, sia la massima espressione dell’alpinismo. Ma ancor più in alto ci dovrebbe essere il rispetto della vita. Vi chiediamo fino a che punto si debba arrivare nell’inseguire un’autodeterminazione senza limiti, un sogno a qualsiasi costo, un alpinismo che se non è senza tutto, anche senza la sicurezza dove è possibile averla, non è alpinismo.

Nei giorni scorsi parlavo con alcuni dei più forti alpinisti italiani, che stanno pianificando spedizioni per il prossimo anno. Spedizioni esplorative, ispirate allo stile alpino. Discutevano con approvazione di portarsi un medico al campo base. Negli stessi giorni, Humar, da solo su una parete sconosciuta, con un cuoco al campo base, telefonava in Slovenia per lanciare un Sos dall’altra parte del mondo. Il terzo della sua carriera. Il terzo e, purtroppo, il fatale.

Senza voler condannare nessuno, queste cose fanno sorgere delle domande. Allora i primi sono dei “vigliacchi” che non osano l’estremo, oppure è gente che ha imparato qualcosa dalla sua esperienza? E sì che tra loro c’era chi ha fatto la Sud dell’Annapurna, chi ha aperto vie nuove su ottomila e chi ne ha collezionati a iosa senza ossigeno. Nell'arrampicata le massime prestazioni, 8c, 9a e via dicendo, vengono compiute con corde e spit, e non per questo valgono poco. Perchè in Himalaya deve mancare tutto? Un paio di settimane fa ad un convegno qualcuno paventava il fatto che le previsioni del tempo e l'uso del telefonino dovessero essere considerate addirittura una forma di doping.

Ecco perchè ci si chiede se non si stia esagerando. E’ normale vedere il rispetto della vita come un limite alla libertà personale? Ci sarà chi vuole rispondere di sì. Ma provate a pensare alla stessa situazione sulle Alpi. O ad altre situazioni della vita, dalla droga alla velocità, all’uso dell’alcol, dove a volte si invoca la “libertà personale” per giustificare comportamenti discutibili,. La storia ha ampiamente dimostrato come l’idealizzazione della libertà assoluta dell’individuo, spinta all’estremo, non porti che alla confusione di valori e a un peggioramento totale delle condizioni collettive.

L’alpinismo sta dunque imboccando una strada di questo genere? Sta tornando brutalmente indietro all’alpinismo eroico dove mettere in gioco la vita è un imperativo e non un’evenienza a cui opporsi con intelligenza e preparazione? Oppure è solo allarmismo dovuto a una fatale catena di incidenti capitati tutti insieme per pura casualità?

Un’ultima domanda, forse ancora più agghiacciante. Riguarda la fama e quanto ne dovrebbe conseguire. Perché l’alpinismo, ormai si sa, fa notizia soprattutto quando c’è un incidente, un soccorso, quando c’è la vita in gioco e la morte diventa un gioco. L’alpinista, danzando sul filo tra la vita e la morte, cerca il senso della vita, oppure, biecamente, la fama?

Di ieri la notizia delle due alpiniste svedesi che hanno truccato le foto per vendere cime mai fatte. Cose contrapposte, se pensiamo alle solitarie estreme di chi non vuole nemmeno che si sappia cosa si è fatto (prima di aver conquistato la vetta, però). Ma non saranno segno dello stesso malessere? Del voler dimostrare di esserci, a costo della morte, per gli ultimi “eroi”, o dell’infamia per i bugiardi?


Sara Sottocornola   




Tratto da montagna.tv



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Simone Moro: più verità e cultura della rinuncia

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immagineBERGAMO -- "E' un discorso difficile, come si fa a impedire la libertà nell'alpinismo, e poi si deve?  Bisogna fare chiarezza e fare cultura, e questa la fanno in primo luogo i protagonisti, che nei loro racconti dovrebbero esaltare un po' di più il valore della rinuncia e dei pericoli che si corrono in alta quota e che si dovrebbero sempre coscientemente evitare e limitare". Questo il parere di Simone Moro sulla questione dell'etica alpinistica e del rispetto della vita.

Sicurezza ed etica alpinistica. Che cosa ne pensi?
Per prima cosa ricordiamoci che la sicurezza molto spesso è data dalle tue abilità e dalle scelte che fai: per esempio di rinunciare quando sei ancora in tempo evitando di farsi accecare dall’ambizione, dallo sponsor  e dalla potenziale  fama.  Anche nel recente e lontano passato abbiamo avuto esempi di voluta e cosciente accettazione di rischi elevatissimi rifiutando di rinunciare alla vetta, per poi assistere ad una tragedia annunciata ed prevedibile. I pochi protagonisti sopravvissuti invece di chiedere scusa e di riconoscere gli errori (e dunque fare cultura e capitalizzare per se stessi e gli altri questa esperienza)  si sono venduti come eroi  cercando altrove colpe e responsabilità proprie. Un pessimo esempio di spazzatura alpinistica.
I rischi poi si possono  ridurre e preventivare facendo le cose per tappe, allenandosi come veri atleti, con autodisciplina severa, quasi stoica e non da ultimo  organizzando a tavolino l’eventuale soccorso (e capacità di autosoccorso) - magari prima che tu ne abbia bisogno, oppure  un  opzione B al progetto originario. Però bisogna pensare anche alle condizioni esterne: in Tibet  ed in altissima quota per esempio non c'è l'elicottero, qualsiasi soccorso viene a piedi e spesso da persone non sono per forza acclimatate e rapidamente disponibili.

Il numero di incidenti, comunque, sembra crescere in modo smisurato...
Il discorso è più ampio. Bisogna rendersi conto che oggi sempre più gente muore perchè sempre più gente va in spedizione. Una volta partire per una spedizione era un notizione. Oggi, ce ne sono talmente tante che giocoforza aumenta anche il numero degli incidenti, è una realtà anche statistica. Se guardiamo agli ultimi anni, Piantoni, Unterkircher, Ochoa, Morawski, Fait, Humar... non stiamo parlando di “brocchi” ma della crema della crema. E non è che sono morti perchè sono somari, ma perchè è capitato l'imponderabile. Se fossero stati a casa certo non sarebbero morti con quella dinamica ma non sarebbero stati protagonisti autentici e coscienziosi dei loro sogni e per favore non cominciamo a pretendere di insegnare cosa si deve sognare per se stessi. Semmai il come…. Insomma non c’è una decisione sbagliata dietro la morte dei personaggi che ho appena citato, mentre per moltissime altre tragedie la fine era quasi telefonata….

Un capospedizione può aiutare?
Avere il capospedizione forte, se da un lato può evitare l'anarchia, che ha generato delirio in tante spedizioni, dall'altro devo considerare che nei grossi incidenti recenti, un capospedizione forse non avrebbe potuto far molto, perchè sono capitati in giornate serene e condizioni ottimali, le loro abilità c'erano. Piantoni stava rinunciando, Ochoa ha avuto un edema. Devo dire che non credo molto nell'impostazione che vede il capospedizione a guidare tanti soldatini. Torneremmo alle spedizioni di Desio e a quelle di tipo sovietico, che rispetto ma non amo. L’alpinismo è anche individuo e individualità ed è su questo aspetto che dovremmo lavorare e raccontare in modo autentico (come fatto recentemente al I.M.S. di Bressanone) e non metterci a fare alpinismo militare, di gregge belante, magari a comando.

Nemmeno per le spedizioni dei giovani?
E' vero che ci sono tanti giovani che si lanciano troppo. E' difficile questo discorso, come si fa a impedire la libertà nell'alpinismo e l’irruenza giovanile che è stata propria di tutti noi? Forse facendo della cultura, e la cultura la fanno i protagonisti. Vedo troppa gente che si preoccupa di microfoni e media, prima ancora delle giuste tappe da fare prima di sognare in grande. Insomma io mentre  sto rispondendo a questa intervista ho ancora le mani sporche di magnesio e la sveglia puntata per andare tra poco  a correre due ore dopo questa pausa al PC, e questo tutti i giorni da 25 anni. Come me tantissimi altri protagonisti del mondo alpinistico realizzano e preparano minuziosamente le loro strepitose salite ed i nomi sono quelli che conosciamo tutti.

Sogniamo e progettiamo in  grande ma ci prepariamo in ugual modo e sappiamo comunque di non essere immuni da rischi e pericoli che spesso abbiamo evitato di affrontare quando troppo alti. Personalmente quando poi arrivano i microfoni e sono sul palco racconto proprio di questo, di cosa sta dietro una scalata e dietro queste 41 spedizioni che ho fatto. Quanto è importante avere paura,  rinunciare, palesare gli errori, essere autocritico prima che critico verso gli altri. Anche Messner diceva che su 30 spedizioni, un terzo sono state rinunce ed io sono cresciuto ed ho sognato basandomi su questo grande insegnamento che veniva proprio dal numero uno. Forse è il caso di esaltare un po' di più il valore della  fatica e della rinuncia, e forse qualcuno avrà meno vergogna a dirlo e andrà meno all'arrembaggio.

Un parere sull'alpinismo esplorativo...
Per fare un alpinismo esplorativo e di valore assoluto ( ovviamente mi riferisco ai professionisti o aspiranti protagonisti ) oggi non basta più fare le cose difficili di una volta. Bisogna alzare il livello personale e delle propre salite sempre di più, esattamente come l’asticella del salto in alto. Ma non deve essere una roulette russa, un alpinismo Kamikaze. Bisognerà rivedere tattiche, stili, tempi. Bisogna sempre tener presente che in quota non volano elicotteri, sono difficili, quasi impossibili i soccorsi, per lo meno in tempo utile. Quindi sarà sempre potenzialmente più pericoloso, bisogna stare sempre più con le antenne dritte, con una preparazione assoluta, la giusta dose di paura e  acuta capacità d’analisi. Sicuramente non basta un capospedizione col binocolo per sostituirsi al buon senso, pilotare le scelte in parete ed evitare i rischi. Non serve il poliziotto al campo base che  mi dica cosa e come devo scalare ma ci vuole un giusto atteggiamento personale.
Certo, alcuni personaggi, comportamenti deplorevoli  e tragedie annunciate, andrebbero accusate apertamente dalla comunità alpinistica ed isolati i protagonisti, ignorati e lasciati soli  a riflettere. Invece sono i personaggi  più gettonati e richiesti anche all’interno del nostro ambiente e questo la dice lunga su come siamo noi stessi i primi da educare.

Quale potrebbe essere, secondo te, la soluzione?
Siccome tutti noi abbiamo iniziato a fare alpinismo leggendo e sognando sui racconti del passato, sarebbe bello leggere ed esaltare le vere grandi gesta ( come avviene specialmente  nei paesi anglosassoni o dell’est), fatte da gente pulita , preparata, umile e rispettata, come pure le grandi gesta di rinuncia, di avventure senza vetta ma di valore tecnico ed umano, di esplorazioni fatte non per il record ma per la ricerca dello sconosciuto, di dare luce a ciò che era ancora buio . Sarebbe bello che gli alpinisti nelle loro serate raccontassero spesso  delle paure, dei pericoli accettabili ed accettati, degli errori da cui hanno imparato e non solo dei  loro successi o presunti tali. Altrimenti i giovani vedono solo campioni e falsi eroi e vogliono essere anche loro tali, con gli stessi mezzi, magari con poca fatica ed umiltà e la sola propensione a fare cassa.

Sara Sottocornola



Tratto da montagna.tv



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