Renzo Dirienzi, tra il Marguareis ed il tempo del viver bene

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Renzo Dirienzi, classe 1969, è un appassionato di montagna, nato a Genova e trasferito a Chiusa di Pesio, nell’area cuneese, dove risiede da una dozzina di anni, dopo una precedente parentesi in una località limitrofa. Come lui stesso asserisce «Chiusa di Pesio è una bella cittadina di fondovalle, tra Cuneo e Mondovì, ai piedi delle montagne, (altitudine m 575), ed all’inizio della Valle Pesio».
Renzo è un fruitore del mondo alpino ed un autore. Recentemente è uscita la sua guida scialpinistica alle montagne della “sua” valle ed il gruppo del Marguareis. Nonostante sia già conosciuto nella sua area d’influenza, non è per questo che abbiamo deciso di incontrarlo, ma piuttosto per ciò che rappresenta.
Dirienzi infatti è uno dei tanti “personaggi” che potrebbero voler apparire, ma che invece rimangono in qualche modo in disparte a vivere semplicemente la loro passione outdoor coniugandola con una professione diversa e gli impegni famigliari. In sostanza Renzo è la materializzazione stessa del tanto ascoltato “yes we can”.
In questa società “mordi e fuggi” o “tutto e subito” od ancora “compra per avere”, è ancora possibile vivere semplicemente da uomini liberi? Osservando Renzo noi pensiamo di si, ed è proprio la montagna, ed in questo caso la sua montagna, a dare questa possibilità.
Da quando vai in montagna?
Dall’età di 16/17 anni, nei primi tempi ovviamente in modo non sistematico, poi con intensità ed impegno differenti nel corso degli anni a seconda delle diverse situazioni contingenti (studio, lavoro, impegni familiari, ecc…), ma comunque sempre con una certa costanza.
Come hai iniziato?
Il mio avvicinamento alla montagna e la frequentazione negli anni sono simili all’esperienza di tanti comuni e normali appassionati. Ho iniziato con l’escursionismo e con lo sci di fondo. Le prime escursioni le feci con un amico, Angelo, che ho rivisto solo di recente. Si trattava di semplici itinerari su sentiero, poco dopo il motivo della gita divenne il raggiungimento di una vetta. Con Angelo feci la prima salita al Marguareis, ma poi lui non continuò.
Successivamente in molte escursioni a piedi mi accompagnò Lorenzo, percorrendo in lungo e in largo la Valle Pesio e le Alpi Liguri: con lui salii il Marguareis per il Canalone dei Genovesi. Con Marina, che poi divenne mia moglie, per molti anni abbiamo visitato le splendide vallate del cuneese, raggiungendone le cime principali, i laghi e tutti i “facili tremila” dell’arco alpino sud-occidentale.
Un altro amico, Andrea, mi iniziò allo sci di fondo, naturalmente sulle piste della Valle Pesio. Per me il fondo rimase sempre un’attività marginale, dalla quale però si sviluppò piano piano l’interesse per lo sciescursionismo, con alterni risultati, e quindi per lo scialpinismo, in particolare negli ultimi anni.
Da quanto pratichi lo sci-alpinismo?
Da una decina d’anni.
Cosa ti piace di questa attività?
Probabilmente la mia interpretazione dello scialpinismo è un po’ personale, non cerco infatti la “discesa da urlo”, la performance sportiva, né sono orientato allo sci ripido. Il mio è uno scialpinismo classico, forse un po’ all’antica, fatto di grandi spazi e di lunghi percorsi. Ritengo che lo scialpinismo sia l’attività più completa, suggestiva e divertente per frequentare la montagna. Con un po’ di fantasia e di adattamento con gli sci ai piedi è infatti possibile andare quasi dappertutto (molte meno limitazioni che d’estate), godere di paesaggi grandiosi e di divertirsi un po’ nelle discese.
È la tua principale disciplina o ne pratichi altre?
In questo periodo è la mia principale disciplina, subito dopo viene la bicicletta da strada: anch’essa permette di sviluppare lunghi percorsi e di godere appieno degli ambienti naturali, e con lo scialpinismo ha in comune un approccio più dinamico e la possibilità di inebrianti discese. Dopo alcune stagioni a grande intensità invece sto decisamente trascurando la mountain-bike.
In passato ho sperimentato, con qualche successo, l’abbinamento dello scialpinismo alla mountain-bike, utilizzando un paio di sci corti e leggeri e un paio di scarponcini da fondo-escursionismo adatti anche alla bicicletta: in questo modo, con una soluzione tutto sommato non impegnativa dal punto di vista fisico, a fine stagione potevo ancora intraprendere le ultime gite in sci evitando i lunghi avvicinamenti a piedi.
Da tutto ciò è evidente che il mio terreno d’azione, prevalentemente sulle alpi Liguri e Marittime, privilegia le montagne di casa e le quote medie, solo occasionalmente visito l’alta montagna.
Hai dichiarato di “non essere un atleta” eppure hai al tuo attivo numerosi ascensioni con un grande dislivello e difficoltà non certo banali: come ti definisci rispetto all’andare in montagna?
Mi definisco un semplice appassionato. Le mie difficoltà sono nella media, i dislivelli alle volte possono apparire un po’ sostenuti, ma in condizioni favorevoli non sono eccessivi. Per condizioni favorevoli intendo principalmente un buon allenamento, nevi scorrevoli e non difficili, buona conoscenza dei luoghi e dei percorsi, giornate climaticamente ben sostenibili (non troppo fredde o non troppo miti).
“Le Nevi del Marguareis” è il tuo primo libro?
Sì, è il mio primo libro. Forse è stata una piccola follia, e ringrazio ancora l’Editore: quando ha visto le bozze ha dimostrato subito grande determinazione, invitandomi a concludere velocemente per pubblicare al più presto.
Hai in programma altri lavori editoriali e/o progetti?
Attualmente non sto lavorando ad altri progetti, nel medio non saprei. Per scrivere ancora, bisogna avere delle idee nuove da sviluppare.
Come fai a combinare la tua passione con la famiglia e la vita quotidiana?
Beh, come tanti, si fa quel che si può. Alle volte tutto va bene, e allora c’è più tempo, in altri periodi ci sono altre priorità e la montagna allora passa in secondo piano. Nella vita di ognuno di noi ci sono periodi più o meno importanti in cui abbiamo altre responsabilità, come stare vicino ad una persona cara, o anche solo preparare un avanzamento lavorativo. Comunque, con un po’ di buona volontà, quasi sempre riesco a ritagliarmi un po’ spazio almeno per rimanere in forma e in allenamento, e alle volte basta anche solo una mezza giornata per compiere una grande escursione.
Certo è necessario scendere a compromessi e fare delle rinunce. Per fortuna, come ho detto prima, non sono un atleta e posso concedermi delle pause o dei momenti di attività moderata. Ringrazio mia moglie che mi sta vicino e spesso condivide le mie attività senza frapporre difficoltà.
Come descriveresti l’area che hai recensito?
La Valle Pesio è ben accessibile e pur trovandosi a pochi passi da Cuneo o da Mondovì, dal punto di vista scialpinistico è ancora una zona “da amatori”, poco conosciuta, poco frequentata, e sconta in misura eccessiva qualche oggettivo problema di sciabilità. “Le Nevi del Marguareis” vogliono quindi essere un invito per lo scialpinista ligure o del basso Piemonte, a frequentare durante la stagione invernale anche la Valle Pesio, con pari dignità con le altre valli vicine più blasonate.
Due tra le montagne più conosciute delle alpi sud-occidentali sono situate sui crinali della Valle Pesio: il massiccio della Bisalta, che con la sua forma “a tenda da campo”, caratterizza tutto il panorama cuneese, e il Marguareis, che da nord appare con il suo aspetto severo di grande montagna.
Quali sono le peculiarità di questa zona?
La Valle Pesio è molto pittoresca ed ha caratteri unici. L’ambiente naturale, a tratti ruvido, ci obbliga ad uno scialpinismo più autentico, lontano dai canoni modaioli e dai luoghi comuni del “fuori pista”, facendoci riscoprire il gusto delle grandi escursioni, con varietà di situazioni. Alle volte sono necessarie risalite o passaggi obbligati, quasi degli “stargate” per le terre alte e per le cime più distanti sul lato Ellero. Il paesaggio muta continuamente di prospettiva, offrendo sempre nuovi scorci da guardare; oltre le fasce vegetazionali del bosco, in alto si alternano in modo piuttosto “brusco” spettacolari scenari dolomitici e morbidi altipiani carsici. Anche il panorama ha un singolare carattere dualistico: mentre sullo sfondo da un lato si distende la cerchia alpina occidentale, dall’altro compare il luccichio dorato del mare.
Quali sono i prossimi progetti in montagna?
Mi piacerebbe girare di più entrambi i versanti delle Alpi Liguri in bicicletta: tra le province di Cuneo, Savona ed Imperia ci sono bellissime strade di montagna pressoché sconosciute.
Cosa consiglieresti ad un ragazzo che voglia iniziare a fare sci alpinismo?
Non penso di avere niente da insegnare. Forse lo inviterei a non privilegiare troppo la perfomance sportiva, ogni tanto è bene fermarsi ad ammirare i paesaggi, le luci, i colori: le tabelline e i tempi di marcia non sono 

Tratto da: Mountain Blog


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CAMPANILE DI VAL MONTANAIA… A FUMETTI! - Novità editoriale di Bassi e Ornigotti

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Campanile di Val Montanaia – La sfida invisibile“, rappresenta sicuramente una novità nel panorama editoriale di montagna, sia per quanto riguarda l’alpinismo sia per quanto riguarda nello specifico il famoso Campanile di cui tanto si è scritto e raccontato (a cominciare proprio da Spiro Dalla Porta Xydias, blogger su Mountain Blog).
Si tratta infatti di un albo a fumetti, autori Renzo Bassi (soggetto) – Caporedattore Meridiani – e Gabriele Ornigotti (disegni), editore Blueprint srl.
Tre amici appassionati di montagna e di alpinismo, nell’ottobre 2004 ripetono la via Normale al Campanile di Val Montanaia, una guglia straordinaria di 2.173 metri nel Gruppo degli Spalti di Toro e dei Monfalconi nelle Dolomiti Friulane.
La ripetizione della via diventa il pretesto per raccontare quanto avvenne su quelle stessi pareti nel lontano settembre 1902.
Allora due cordate, una italiana composta da alpinisti triestini, l’altra austriaca, tentarono l’attacco al Campanile sfiorandosi spesso per poche ore ma senza mai incontrarsi – da qui il titolo “La sfida invisibile” – fino alla sera del 9 settembre 1902 quando i due gruppi casualmente si ritrovarono in una locanda di Cimolais.
Incontro che si rivelerà decisivo. La cima sarà conquistata dagli austriaci il 17 settembre 1902.
Perché un fumetto? Libri fotografici, storici, guide dedicati alle montagne ne esistono già tanti, così il fumetto è sembrato agli autori un modo nuovo e inedito di raccontare la storia. Uno strumento che può aiutare i più i giovani ad avvicinarsi alla Storia dell’Alpinismo ma anche i tanti appassionati di questo genere.
Per questo le tavole sono state affidate a un giovane disegnatore che ha già realizzato diversi albi per le serie “Napoleone” e “Jan Dix” editi da Sergio Bonelli, l’editore di Tex Willer.
Il volume si compone di una introduzione dove la storia è raccontata nei suoi particolari e nei risvolti cronologici e illustrata con disegni di Mauro Corona, scultore, scrittore e alpinista di Erto e con acquerelli realizzati nel 1902 da Napoleone Cozzi, artista oltre che alpinista e capocordata dei triestini.
Seguono le 16 tavole a colori con la storia a fumetti e la descrizione tecnica della via salita (oggi la “Normale” al Campanile di Val Montanaia).
Quindi è la volta di alcune pagine dedicate ai suggerimenti e alle regole base da seguire quando si frequenta la montagna, al materiale, ai comportamenti base da tenere in caso di incidente.
In un’altra breve sezione si illustra come sono nate le tavole e la copertina, dai primi abbozzi a matita fino alla versione definitiva.
E’ possibile acquistare l’albo inviando una mail a edizioni@blueprintsrl.com e versando l’importo di
Euro 12 a copia più spese di spedizione (euro 2,00) su Postepay 4023 6005 8223 2296 intestata a
Trezzi Stefania.
Per ordini superiori alle 5 copie la spedizione è gratuita.
Per informazioni: tel. 02 972380 1.

Tratto da: Mountain Blog

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IL MEZZALAMA DIVENTA UN’OPERA D’ARTE - I migliori scultori valdostani in gara

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Il prossimo trofeo messo in palio al Mezzalama sarà un’opera d’arte appositamente realizzata da uno scultore valdostano. Anzi, sarà la scultura più bella, selezionata da un’apposita giuria attraverso un bando a cui hanno aderito dodici dei migliori artisti della vallée.
L’annuncio è stato dato giovedì alla Biblioteca Civica di Aosta dall’assessore alle attività produttive della Regione Autonoma Ennio Pastoret e dal presidente della Fondazione Trofeo Mezzalama Giorgio Pession, nel corso della conferenza stampa di presentazione della 1011° Fiera di Sant’Orso.
Le dodici sculture inedite potranno infatti essere ammirate sul banco espositivo di ciascun artista il 30 e 31 gennaio alla Fiera di Sant’Orso, il più popolare e tradizionale appuntamento della cultura valdostana che animerà il centro di Aosta a fine gennaio.
In seguito le opere in concorso verranno esposte a Gressoney Saint Jean dove un’apposita giuria designerà la scultura vincitrice che sarà proclamata il 25 marzo 2011, nel corso della conferenza stampa di presentazione della XVIIIa edizione del Trofeo Mezzalama, la classica gara di scialpinismo che si correrà sabato 30 aprile sui ghiacciai del Monte Rosa.
La scultura che sarà messa in palio come nuovo trofeo avrà un premio di cinquemila euro, mentre mille euro andranno alle opere classificate dal secondo al quinto posto.
Gli artisti che si cimentano nel concorso per il nuovo trofeo sono Giangiuseppe Barmasse di Valtournenche, Giuseppe Binel di Donnas, Emo Broccard di Sarre, Salvatore Cazzato di Aymavilles, Mauro Chenuil di Donnas, Roberto Chiurato di Saint Vincent, Dario Coquillard di Gignod, Ornella Cretaz di Pont Saint Martin, Franco Crestani di Quart, Enrico Massetto di Aymavilles, Silvano Salto di Saint Marcel, Siro Vierin di Saint Oyen.
Per la storia occorre rammentare che il trofeo definitivamente assegnato nel 2009 alla squadra degli alpini in seguito alla vittoria di tre edizioni della gara (due vinte negli anni Settanta) era identico al primo trofeo vinto anch’esso dagli alpini nel 1937 dopo tre vittorie consecutive della gara. Pertanto quel trofeo originale, artistica fusione in bronzo di uno sciatore in stile anni Trenta, è stato utilizzato finora in tutte le diciassette premiazioni della gara svoltesi dal 1933 al 2009.
In futuro il nuovo trofeo verrà utilizzato fino alla definitiva assegnazione alla squadra che, secondo regolamento, riuscirà a collezionare tre vittorie della storica “maratona dei ghiacciai” che attualmente si corre ogni due anni da Cervinia a Gressoney attraverso il Monte Rosa.

Tratto da: Mountain Blog 


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Marco Blatto… Da Motti e Grassi al trad ed il futuro

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Il 2011 è iniziato oramai da qualche settimana e Mountain Blog non può certo rimanere indietro con i tempi. Oggi vogliamo rilanciare in puntualità ed attenzione proponendovi un personaggio noto nel mondo della montagna, una firma ed una garanzia: Marco Blatto.
Nato a Torino ne 1965, residente a Cantoira nella Val Grande di Lanzo, Marco è un forte alpinista ed eccellente scrittore e professionista in ambito letterario e montano, non a caso Accademico del GISM e membro dell’Alpine Club. Nella sua vita ha collezionato esperienze di ogni sorta e tutto ciò gli ha permesso di diventare ad oggi il punto di riferimento oggettivo che rappresenta per molti.
Sei uno scrittore di montagna Accademico del GISM: che significa?
Il GISM [Gruppo Italiano Scrittori di Montagna n.d.a.], a ottant’anni dalla sua fondazione, può ancora rappresentare una voce autorevole in materia di cultura alpina e, soprattutto nell’alpinismo. Il fatto che il GISM, nato come una sorta di contro – altare del CAAI, abbia però a differenza di questo mantenuto una condizione di autonomia assoluta dal Club Alpino Italiano, consente a mio parere un’autorità unica nel panorama associazionistico, condivisa solo da poche altre associazioni legate al mondo della montagna. È importante che tale autonomia rimanga, pur dialogando e collaborando, com’è ovvio con altre realtà.
Quali sono i tuoi impegni a riguardo?
Dal 2007 sono delegato del GISM per il Piemonte e la Valle d’Aosta, e da allora cerco di rendere visibile l’immagine e le finalità del nostro sodalizio in ogni appuntamento di rilievo per l’alpinismo e per la cultura alpina. Se ti riferisci in senso stretto alle “questioni” interne, cercherò d’adoperarmi affinché gli ideali storici del gruppo si adeguino sempre di più alle problematiche concrete dell’alpinismo odierno, che sono ben diverse rispetto a quelle di anche solo vent’anni fa. È importante che il GISM sappia abbandonare alcuni reducismi e “nostalgismi” che mi paiono oggi un po’ demodè e talvolta addirittura inadeguati rispetto ai veri problemi dell’etica alpinistica odierna.
Dell’alpinismo, occorre saperne cogliere appieno le pieghe attuali, in cui inserire un discorso se vuoi sì “ideale”, ma per forza di cose decisamente più “laico” rispetto a quello spesso proposto in passato. Oggi insomma, mi sembra ovvio, occorre consolidare anche un “sentimento della meta” oltre che “un sentimento della vetta”. Se non si capisce questo, perderemo l’opportunità di far breccia in modo “ideale” nelle nuove generazioni, alle quali occorre invece far comprendere che molto vi è al di là dello “sport” o del mito del “grado”. Il gruppo viceversa rischierebbe di “arrotolarsi” su sé stesso. Tuttavia vedo forze nuove all’interno del GISM, giovani con cui si dovrà per forza di cose assolutamente dialogare.
Sei anche membro dell’Alpine Club: che cosa significa?
Significa essere membro del primo club alpino della storia, un club che ha mantenuto il suo carattere elitario originale nei suoi 150 anni di vita, (non va confuso con il BMC che oggi è l’equivalente del nostro club alpino), ma, soprattutto e cosa rara, ha mantenuto intatto lo spirito dei suoi padri fondatori e cioè esplorazione e divulgazione. Il club regola ancora oggi l’ammissione in modo assai severo e, se non si possiedono i requisiti alpinistici necessari, vi è un periodo da passare in qualità “d’aspirante”. Devo dirti però che, a differenza di quanto la sua storia potrebbe indurre a pensare, si tratta di un club ricco persone gioviali, disponibili, nonostante vi gravitino personaggi di primissimo piano in campo alpinistico. È un club inoltre “internazionale”, perché accoglie nelle sue fila alpinisti di tutto il mondo. L’Alpine Club promuove meeting d’alpinismo di altissimo livello in tutto il pianeta, spedizioni extraeuropee, partecipa in prima persona al prestigioso premio d’alpinismo “Piolet d’Or”.
Come hai fatto a diventarne membro?
Ero impegnato in una campagna negli Ecrins nell’estate del 2007 e, mentre tornavo dall’apertura di una via nuova alla Momie, ho incontrato un gruppo di AC members. Parlando del più e del meno e avendo saputo della mia attività, mi hanno proposto di presentare la candidatura. Dopo un anno d’indagini preliminari è arrivata la nomina.
Hai anche vinto il premio d’alpinismo De Simoni? Cosa puoi dirci a riguardo?
Sì, ero già stato segnalato a Cervinia nel 1999, poi è arrivata la vittoria nel 2003 a pari merito con Mario Manica. Il premio De Simoni rappresenta idealmente un riconoscimento per ciò che dovrebbe essere secondo me l’alpinismo: esplorazione, conoscenza e divulgazione. È un premio rivolto agli “alpinisti” che ancora credono che sulle Alpi vi sia ancora qualcosa da dire, in campo tecnico e conoscitivo. Per me è stata una bella soddisfazione e spero che il premio continui a premiare l’attività di ricerca in montagna, non quella della mera ripetizioni d’itinerari. Spero che i prossimi vincitori in futuro continuino ad essere “alpinisti” e non semplici “arrampicatori”. Certo che stare in un Albo d’oro assieme a certi mostri sacri fa un po’ effetto…spero d’essermelo meritato.
Come e quando hai iniziato?
Sono cresciuto in montagna, prima a Courmayeur e poi nelle Valli di Lanzo, quindi ti risponderei “da sempre”. Tuttavia, siccome so cosa intendi, ebbene, diciamo ufficialmente dal 1977, quando incominciai a fare delle escursioni a piedi. Poi, nel 1979, feci un breve corso d’arrampicata per ragazzi organizzato dalla Società delle Guide di Courmayeur e da Cosimo Zappelli, allora amico di mio zio.
Da quanto pratichi l’alpinismo?
Per quanto riguarda l’alpinismo, ho fatto le mie prime vere salite nel 1981, collezionando in un primo tempo tutte le vie normali delle più importanti vette delle Alpi Graie, poi, poco per volta, sono passato a salite più impegnative.
L’arrampicata?
Dopo il corso iniziatico a Courmayeur nel 1979, si può dire che non abbia più smesso…
È il tuo mestiere?
Si potrebbe anche dire così, perché il mio mestiere deriva anche dalla costante attività in montagna praticata in tanti anni. Ma io sono giornalista e scrittore soprattutto, e mi occupo di geografia e di ambiente alpino. Poi, sono anche un tecnico della FASI e lavoro due giorni alla settimana presso la palestra gestita dalla Società Arrampicata Sportiva Palavela di Torino
Al massimo quanto ti sei allenato e dove?
Io provengo dalla generazione degli “arrampicatori” dei primi anni ottanta. L’arrampicata per me era un’attività che praticavo sia in montagna che su vie di media quota, ma molto raramente andavo in falesia.
All’epoca però non era come oggi e, l’allenamento era assai fatto in casa, specialmente per chi non frequentava in modo sistematico una palestra indoor. Alla fine si andava in sovrallenamento oppure ci si procurava danni ai tendini, cosa che mi è successa più volte. Generalmente frequentavo la palestra di arrampicata Guido Rossa, presso il Palazzo a Vela di Torino, oppure mi allenavo ai massi dietro casa a Cantoira, quando ne avevo voglia.
Ho iniziato ad allenarmi in modo sistematico solo nel 1987, quando l’ambiente dei corsi roccia delle truppe alpine dove prestavo servizio di leva, imponeva agli istruttori di passare molto tempo assieme. Dopo una giornata di corso con gli allievi si usciva anche ad arrampicare, magari dopo aver fatto un’ora di pesi in palestra. In seguito l’allenamento è divenuto più razionale e metodico, con sedute di quattro volte la settimana e scalata sul muro. Ti dico però che, anche sulla plastica, ho sempre scalato e scalo tuttora anche solo per divertimento.
Quanto ti alleni ora?
Pur lavorando due giorni la settimana a Torino in palestra, tra corsi e assistenza mi resta poco tempo. Scalo e basta quando riesco, poi corro molto, vado in mountain bike e d’inverno faccio molto ski-alp e sci nordico. Te l’ho detto, più che uno scalatore assiduo sono un assiduo praticante della montagna…
Quante vie hai aperto/chiodato?
Ho aperto 21 vie nuove in montagna e chiodato circa 150 vie d’arrampicata. Da un po’ di tempo a questa parte cerco di usare sempre di meno il termine “chiodato”…
Dove hai scalato?
Ovunque si potesse arrampicare, su ghiaccio e su roccia, dalle Alpi occidentali alle Dolomiti passando per il Masino-Bregaglia-Disgrazia. Per quanto riguarda l’alta montagna ho sempre prediletto il massiccio del Monte Bianco così come quello del Pelvoux, anche se, per “innamoramento” e per questioni di tempo, ultimamente ristagno un po’ sulle montagne di casa. Per quanto riguarda l’”arrampicata pura”, siccome amo le vie multipitch, sono andato spesso nel Briançonnais. Per noi “torinesi” è molto comodo…
Qual è la tua via ideale?
Quella via di gneiss – granito ricca di diedri e soprattutto di fessure. Vuoi il nome di una delle vie d’arrampicata a bassa quota più belle per me in assoluto? Il Diedro Nanchez al Caporal, nella Valle dell’Orco.
Hai conosciuto Gian Piero Motti: parlami di lui.
Qualsiasi scalatore in erba gravitante nell’area della Val Grande di Lanzo nei primi anni ottanta, conosceva Motti. Gian Piero passava gran parte del suo tempo libero a Breno di Chialamberto e, frequentemente, lo si poteva incontrare ai massi della frazione Balme di Cantoira, dove egli stesso aveva tracciato un circuito di passaggi già nei primi anni ’70. Il triennio ‘80-’83 è stato quello più critico per lui, durante il quale ha maturato proprio nel Vallone di Sea in Val Grande la sottile “invenzione” delle “Antiche Sere”, che fa seguito all’utopia del “Nuovo Mattino”.  Si è trattato di un testamento spirituale degno dei più grandi romantici dell’alpinismo, in cui non ha corretto affatto i temi del Nuovo Mattino, tentando invece di spiegarne la purezza dell’idea primigenia, le conseguenti mistificazioni volute da qualcuno e l’equivoco che ne è scaturito.
Mi fa sorridere chi, ancor oggi ritiene Gian Piero Motti responsabile di una sportivizzazione dell’arrampicata fine a sé stessa, che sarebbe figlia del Nuovo Mattino. Vuol dire solo strumentalizzare un pensiero che non si è invece affatto capito, oppure, ancora peggio, non avere capito effettivamente nulla! Gian Piero, a me personalmente, ma credo anche a molti altri scalatori più introspettivi, ha lasciato una possibilità in più, cioè quella di cogliere un “sentimento” nel praticare la scalata o la montagna degno degli ideali più puri del nostro Gism.
La scalata, come l’alpinismo, è un fatto spirituale nel senso anche più laico del termine e poco importa se la vetta sia quella di una famosa montagna, di un masso o di una lunga parete alla fine della quale ci attende un bosco. É quello che io chiamo il “sentimento della meta”, che non esclude la “vetta”, nemmeno il Nuovo Mattino intendeva farlo in modo definitivo, ma non ne riconosce semmai l’esclusività. Del resto, ciascuno di noi, ha la propria vetta intesa come valore simbolico, e non esiste una vetta “migliore” o peggiore di un’altra.
Poi, pensa a questo fatto: definiresti “non alpinismo” una lunga parete con tutte le difficoltà oggettive e soggettive delle grandi montagne, magari isolata e dove non v’è certezza alcuna di riuscita, solo perché alla fine di questa vi è un altipiano tappezzato di rododendri? Sarebbe forse più alpinismo raggiungere una modesta “vetta”, magari alle porte di una città e lungo un comodo sentiero, solo per rispondere a una necessità morfologico – simbolica? Non lo credo affatto…
Ancora oggi, sono molto amico della famiglia Motti, che continua a frequentare assiduamente Breno in Val Grande di Lanzo e, con Carla Motti, spesso collaboro ad iniziative a carattere storico- culturale.
Parlami di Gian Carlo Grassi.
Gian Carlo, già protagonista del Nuovo Mattino, raccolse l’eredità delle “Antiche Sere”. Lo fece in modo libero e totale, come sempre è stata la grande avventura umana che lo ha contraddistinto. Grassi era di certo meno raffinato e “cerebrale” rispetto a Motti, dunque fu più facilitato a vivere serenamente il proprio modo di concepire l’alpinismo, dalle grandi pareti alpine e himalaiane alle pareti di fondovalle, dai massi intorno a Torino alle cascate di ghiaccio.
Per lui, l’avventura era sempre la stessa. Ed è giusto che sia così! Ricordo che un giorno, l’amico e mio maestro di giornalismo Emanuele Cassarà, scrisse che le goulottes e le cascate che Gian Carlo saliva a decine non erano di fatto “alpinismo”.
Emanuele era un grande detrattore dell’alpinismo idealista ed era al contrario promotore dell’alpinismo sportivo, dunque, a ripensarci oggi viene da sorridere! Pur nella loro genuina semplicità, alcuni scritti e pensieri di Gian Carlo Grassi rappresentano dei momenti altissimi della letteratura introspettiva alpina, che testimoniano intelligenza, romanticismo e vera libertà di pensiero. La sua morte è stata, come quella di Motti, una grave perdita
Erano i tuoi miti?
No, sono stati semmai dei punti di parziale riferimento. I miei miti in alpinismo sono stati René Desmaison, Hermann Buhl e Gary Hamming.
Cosa pensi delle free solo? Ne hai effettuate?
Il free solo, su qualsiasi difficoltà venga praticato, è un passaggio importante se non obbligato per lo scalatore più introspettivo. Arrampicare senza la corda e da soli regala sensazioni uniche sul piano fisico ed emotivo. Tuttavia occorre grande consapevolezza dei propri limiti e grande umiltà, perché “sbagliare” sul terzo grado come sull’8a è fatale allo stesso modo. Ho praticato nel mio piccolo il free solo su alcuni itinerari nel Vallone di Sea, così come lungo alcune vie in montagna, ma occorre veramente sentirsi in pace con sé stessi e in armonia con l’ambiente circostante. È una cosa molto importante…
Cosa pensi del trad climbing?
Per fugare ogni confusione con quella che definiamo “scalata tradizionale”, occorre dire subito che si tratta di un’arrampicata in “ottica britannica”, dunque clean, su strutture generalmente brevi (10-30 m). In questa “nuova disciplina” vi è però molto dell’arrampicata sportiva a livello di preparazione specifica e di “obbiettivo”, come il superamento della difficoltà, pur rimettendo in primo piano la componente psicologica. La risoluzione di alcuni brevi tratti di scalata, beneficia inoltre dell’esperienza ricavata dalla pratica del bouldering.
In senso positivo, lo spirito trad può essere inteso come il legittimo tentativo di difendere certi luoghi da una possibile contaminazione delle “degenerazioni” dell’arrampicata sportiva, dall’omologazione e dall’uso dello spit plaisir come è già successo in molti siti.
Mettere uno spit laddove si possa invece inserire una protezione a incastro, diventa dunque un’azione inutile se non illegittima, soprattutto se ciò avvenga in certi luoghi dove si è preservata un’arrampicata “non sportiva” nel senso tradizionale del termine.
Se la nuova generazione di arrampicatori saprà dialogare con quella del “passato”, io vedo nel trad climbing odierno un ventaglio di benefici che si rifletteranno, come è logico che sia, anche in alpinismo.
Dal punto di vista meramente “tecnicistico”, la rinuncia allo spit in certi casi potrà essere letta come una rinuncia alla garanzia della riuscita, a livello pratico e psicologico (soprattutto tra gli scalatori neofiti e di livello medio-basso). Sarà così possibile riporre al centro del “gioco” l’auto -consapevolezza e la costruzione di una crescita tecnica graduale e responsabile, caratterizzata anche e soprattutto dalla rinuncia.
Dal punto di vista più “idealistico”, la filosofia trad rilancia il gusto della scoperta, dell’esplorazione e, l’incertezza della riuscita, sottolinea l’importanza di quella dimensione dell’avventura che lo spit facile, in basso come in alta montagna, aveva rischiato di menomare e talvolta addirittura di azzerare. Una dimensione dell’avventura legittimata dall’idea di “spazio per la fantasia”, con in primo piano il “sentimento della meta”. E poco importa, a mio avviso, se detto sentimento sarà costruito su pochi metri di fessura proteggibile, sul versante di un masso su una grande parete alpina.
Che cosa rappresentano i meeting nel vallone di Sea ed in valle dell’Orco?
Rappresentano la possibilità di dialogare e mettere a confronto idee ed esperienze tecnico-culturali diverse, importantissime per traghettare in modo consapevole e non radicale i nuovi fenomeni. Spero ve ne siano sempre di più.
Quali movimenti si stanno sviluppando a riguardo?
Il trad climbing sta cominciando a prendere piede tra i giovani e soprattutto tra i neofiti. È importante poter avere, come ho detto, una visione diversa sulla “certezza delle riuscita”. È un momento di forte spinta esplorativa, d’avventura e ce n’era bisogno nel logorato mondo dell’arrampicata figlio dello spit.
Cosa diresti ad un ragazzo che inizia a fare arrampicata?
Di leggere molto e saper riconoscere i buoni maestri…
E se inizia a fare alpinismo?
Esattamente la stessa cosa, ma in più di partire dalla “consapevolezza” del bosco e del pascolo prima di rivolgersi alla dimensione delle rocce e dei ghiacci…
Qual è il futuro dell’arrampicata e quale quello dell’alpinismo?
Un “domandone” al quale è difficile dare una risposta. Penso che molto dipenderà da quanto sapremo riportare il “sentimento” in alpinismo e da quanto sapremo re-inventarci in arrampicata.
Qual è il tuo prossimo progetto in campo alpinistico e quale in campo letterario?
Sto progettando un viaggio nella catena dell’Atlante Sahariano, poi, anche sulle Alpi qualche progettino ce l’ho. In campo letterario sto portando a termine il mio ultimo libro sulla storia alpinistica delle Valli di Lanzo, che dovrebbe vedere la luce in primavera.
Intervista di Christian Roccati
Sito personale: www.christian-roccati.com

Tratto da: Mountain Blog 


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