Giusto Gervasutti: i 100 anni del Fortissimo

0 commenti


Corre quest'anno il centenario della nascita di Giusto Gervasutti, l'alpinsta che durante gli anni '30 e '40 ha scritto importanti pagine nella storia dell'alpinismo mondiale, tra cui spicca la sua via sulla Est delle Grandes Jorasses. Il ricordo di Andrea Giorda.

"L’anno scorso cercavo casa a Rivoli nei pressi di Torino, come tanti ero ormai giunto alla disperazione. Visitavo alloggi di agenzie che avrebbero venduto una cabina del telefono come splendido monolocale con vetrata, allacciamento telefonico incluso..ovviamente! Quando ormai ero sfinito, come all’ultimo spit prima della catena, sporgendomi dalla finestra di un alloggio vidi la facciata di una chiesa e una statua di un santo, proprio di fronte a me. Il santo mi sorrideva, la piccola scritta alla base rivelava il suo nome... San Giusto. Inutile proseguire la storia, ora vivo in quella casa, nella mia vita di ragazzino, impallinato di arrampicata, Giusto Gervasutti ha rappresentato un modello spirituale e ideale, che mi ha condotto sulle sue tracce fino sulla Est delle Grandes Jorasses, dove corre la sua via più prestigiosa.

Alle radici dell’alpinismo e degli alpinisti c’è la storia, e spesso l’infatuazione per personaggi che ci hanno aperto mondi meravigliosi, ricchi di avventura e grandi vicende umane. Le celebrazioni per i cento anni dalla nascita di Giusto Gervasutti sono dunque un’occasione unica per far conoscere, a chi non ne ha avuto la possibilità, i pensieri e le imprese di questo grandissimo Alpinista. Uno dei più grandi del’900.

Senza la storia, vie come la Solleder in Civetta, sono dei marcioni di 1250 metri, di 6a e pure male attrezzati! Un pericolo da cui stare alla larga, insomma. Quante volte nelle scuole di Alpinismo, in seno al CAI e al CAAI, ci si lamenta che i giovani sono sempre meno attratti dall’alpinismo. Ben vengano quindi queste rievocazioni, non ci saranno adesioni di massa, ma solo seminando si può sperare di raccogliere qualcosa.

Gervasutti, nato nel 1909 a Cervignano del Friuli, ha iniziato a scalare sulle alpi orientali, e quando nel 1931 si è trasferito a Torino, ha sconvolto con la sua tecnica da dolomitista tutti i parametri di difficolta della tradizione occidentale. Iniziò ripetendo la più difficile scalata del tempo sul Monte Bianco, la via aperta dai tedeschi sulla Sud della Aiguille Noire de Peuterey. Non è un caso: i tedeschi erano i campioni del sesto grado e vi erano grandi rivalità nazionali. Alla base della Solleder, in Civetta, per sfida avevano scritto “Non è terreno per italiani!”.

Ma quando Gervasutti si affaccia sulla scena internazionale, lo scenario si allarga dalle grandi pareti dolomitiche a quelli che erano considerati “gli ultimi problemi delle Alpi”. Le tre grandi Nord: quella del Cervino, che si aggiudicheranno i fratelli Schmid, quella dell’Eiger e la Nord delle Grandes Jorasses. Gervasutti uscirà sconfitto di un soffio, proprio dalla corsa alle Jorasses sullo sperone Croz, ma il racconto del compagno Renato Chabod resta nella storia come uno dei più avvincenti scritti di montagna. Riccardo Cassin lo precedette poi su un altro dei suoi obiettivi, lo sperone Walker alle Grandes Jorasses. E’ curioso come il mondo mediatico dell’alpinismo degli anni ’30, fosse conteso da tre campioni, tutti dell’estremo nord est, Cassin, Gervasutti ed Emilio Comici. Non erano gli unici italiani forti, ad esempio Giovanni Battista Vinatzer, era un fuoriclasse assoluto, ma i media dell’Italia fascista non lo consideravano utile alla propaganda.

I tre campioni non potevano essere più diversi, Cassin era il pragmatismo assoluto, veniva dal pugilato, il suo motto era veni vidi vici! Per lui l’arrampicata era un mezzo per conquistare la parete, aggiungerei senza tormenti o indecisioni. Comici era il funanbolo acrobatico, l’arrampicata era il fine, chi sfoglia i suoi libri o vede i sui film resta affascinato da un atleta che ricerca la bellezza nel gesto e nella posa scultorea. Gervasutti si discosta dai due, per lui la scalata e l’alpinismo sono un via per raggiungere un livello di esistenza superiore al comune mortale. Per elevarsi, non essendo un poeta o un artista che può permettersi vette eccelse seduto in poltrona, l’alpinista deve Agire e trova la sua dimensione solo nell’Azione.

Da questi pochi ma chiari concetti nasce il mito romantico di Gervasutti, che vive l’alpinismo quasi come una missione superiore, “Osa, osa sempre e sarai simile ad un dio” recita nel suo libro/testamento Scalate nelle Alpi. Ma forse il testo più toccante, che riassume la contraddizione e la bulimia degli alpinisti, mai sazi ed eternamente alla ricerca di nuove emozioni, si trova a conclusione del racconto della sua lotta più dura, il suo grande riscatto, la parete Est delle Grandes Jorasses: “ …ci stendiamo al sole. Fa caldo e abbiamo una gran voglia di dormire. Niente fremiti di gioia. Niente ebbrezza della vittoria. La meta raggiunta è già superata. Direi quasi un senso di amarezza per il sogno diventato realtà. Credo che sarebbe molto più bello poter desiderare per tutta la vita qualcosa, lottare continuamente per raggiungerla e non ottenerla mai.”

Se si mettono in fila le più grandi imprese di Gervasutti, si rimane impressionati anche perché è uno dei pochi della sua epoca che ha scalato dalle Giulie al Delfinato. Con il suo amico francese Lucien Devies ha fatto coppia sulla parete Nord Ovest dell’Ailefroide, detta per analoghe difficoltà e lunghezza la Walker dell’Oisans. La via sull’Ailefroide, al pari della Est delle Jorasses, ha avuto negli anni ben poche ripetizioni e rappresenta ancora oggi una impresa di grandissimo rispetto. Gervasutti la scalò interamente con due costole rotte, il medico che lo visitò lo descrisse di resistenza al dolore non normale.Che dire poi del Picco Gugliermina, salito con Gabiele Boccalatte, una guglia dolomitica verticale e con fessure cieche, piazzato nel cuore del Monte Bianco?

Certo Cassin, fece capire, in particolare in un simpatico episodio, che Gervasutti poteva permetterselo, mentre lui, operaio, con i giorni contati dalle misere ferie, poteva concedersi poche divagazioni. I due, che si stimavano, si incontrarono all’uscita di vie differenti in cima alla Civetta, Gervasutti aveva fatto la Solleder, scendendo insieme con i rispettivi compagni, sono presi dalla notte e hanno un sacco letto in due. Si decide che verrà utilizzato per metà notte a testa, ma quando è il suo turno, Cassin vedendo dormire della grossa Gervasutti, non lo sveglia, quasi un riguardo verso quel ragazzo della Creme Torinese…

Gervasutti, proprio come si conviene ad un eroe romantico muore giovane. L’aveva predetto alla sua morosa, che ancora oggi ricorda e rivela le sue parole con rammarico “non ti posso sposare, morirò in montagna.”

Il 16 settembre del 1946, per una banalità, cercando di sbloccare la corda doppia, cade dal pilier del Mont Blanc du Tacul che porterà per sempre il suo nome.

Andrea Giorda CAAI



Per saperne di più su Giusto Gervasutti:

Il Film: Giusto Gervasutti il solitario signore delle pareti - Realizzato dalla Regione Friuli Venezia Giulia, ufficio stampa.

Il Regista è Giorgio Gregorio, Direttore della Scuola Nazionale di Alpinismo del CAI “Emilio Comici”. Testimonianze di Cassin, Spiro dalla Porta Xydias e bellissime immagini delle pareti percorse da Gervasutti. Associazioni, Scuole, Sezioni del CAI, che ne volessero una copia gratuita possono scrivere a supporto@fvg.tv

La Mostra: allestita al Museo Nazionale della Montagna- CAI-Torino

Il FORTISSIMO 11 dicembre 2009 - 07 febbraio 2010. Bella documentazione fotografica, alcune immagini inedite dall’archivio di Ettore Giraudo

Il Libro di Gervasutti: Scalate nelle Alpi – L’ultima edizione è dei Licheni Cda&Vivalda Editore-2005 - a cura di Pietro Crivellaro.

La Scuola Nazionale di Alpinismo Giusto Gervasutti- Cai Torino: per chi vuole avvicinarsi al mondo dell’alpinismo. http://www.scuolagervasutti.it/

Celebrazioni : il 12 dicembre 2009, a Cervignano del Friuli si è tenuto un interessante convegno su Giusto Gervasutti

Sono intervenuti: Massimo Giuliberti CAAI, Spiro dalla Porta Xidyas CAAI, socio onorario CAI e Presidente del GISM e il giornalista Luciano Santin. I promotori e organizzatori sono stati il Presidente della sezione del CAI di Cervignano Ciro Carnielli e il Vice Cristian Boemo. A sottolineare l’importanza dell’evento erano presenti il Presidente Generale del CAI Annibale Salsa e il Presidente del CAAI Gruppo Occidentale Claudio Picco.

Posta un commento

La foresta pluviale ha un valore di mercato

0 commenti

L’American electric power (Aep) e la British petroleum (Bp) stanno investendo in Bolivia in un progetto di conservazione della foresta pluviale. In questo modo pensano di compensare le emissioni inquinanti di cui sono responsabili.

“Considerato che la deforestazione provoca tra il 15 e il 20 per cento delle emissioni di tutto il pianeta (più delle auto, degli aerei e delle navi), prevenire la distruzione della foresta può essere un modo per contrastare i cambiamenti climatici”, afferma la Bbc.

“Il professor Geoffrey Heal della Columbia university di New York, in passato era un consulente dell’Opec e si occupava di investimenti nel mercato petrolifero. Ora insegna responsabilità sociale delle imprese agli studenti del master in Business administration. Insieme a un gruppo di ricercatori ha elaborato un modo per premiare le nazioni che scelgono di non distruggere le loro foreste”, racconta la Bbc.

Il meccanismo di base era questo: i paesi che riducono il tasso di deforestazione ricevono dei crediti che possono essere rivenduti sul mercato mondiale delle emissioni di anidirde carbonica. Per determinare quanto dare a ogni paese, bisognava calcolare quanta anidride carbonica viene emessa nella distruzione delle loro foreste, tenendo conto del fatto che il tasso di emissioni dipende dal tipo di vegetazione. A questo punto è possibile stabilire la cifra annuale che deve essere pagata a ogni paese per ogni ettaro di bosco risparmiato.

“Ma se fare una stima del valore di mercato della conservazione dei boschi è difficile, ancora più difficile è trovare dei finanziatori. Solo le imprese private hanno abbastanza soldi per finanziare progetti come questo, che servono a compensare le emissioni di anidride carbonica che sono provocate dalla loro stessa attività”, continua la Bbc.

Proprio seguendo un progetto come questo, già dieci anni fa, alcune delle compagnie petrolifere più importanti del mondo come Aep e Bp hanno finanziato il governo boliviano affinché non distrugga la foresta pluviale in particolare quella del parco naturale Noel Kempff, nel nord-est del paese.

Di progetti come questi si parlerà durante il vertice di Copenaghen, anche perché molti stati come gli Stati Uniti e la Gran Bretagna stanno pensando a soluzioni simili per ridurre le emissioni di anidride carbonica. Ma secondo alcune organizzazioni ambientaliste come Greenpeace questa strada potrebbe essere una scorciatoia per le aziende e per i governi per evitare di ridurre le emissioni, continuando a inquinare e a comprare pezzi di foresta.

INTERNAZIONALE

Posta un commento

Copenaghen minuto per minuto

0 commenti


"Circa cinquemila giornalisti che vengono da 180 paesi parteciperanno al vertice delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici. Cop 15, come viene chiamato, sarà uno degli eventi più coperti dalla stampa internazionale. “Questo dà l’idea di quanto l’ambiente abbia acquistato importanza nell’agenda globale, se si pensa che al vertice di Rio de Janeiro del 1992 hanno partecipato solo mille giornalisti”, commenta John Vidal sul Guardian che con il suo blog offre una copertura del summit aggiornata minuto per minuto.Questo summit è un affare per i mezzi d’informazione: la sola Bbc ha mandato 35 persone, il Guardian otto. Ogni testata sta mandando reporter ma anche blogger, giornalisti multimediali e reporter via Twitter. I tag più usati per seguire il festival sono #Cop15 e #Climate. La Bbc ha aperto un account di Twitter solo per raccontare il vertice.
Anche i paesi emergenti come Cina, Brasile e India hanno inviato almeno 300 giornalisti. “Quello che sarà difficile per la stampa internazionale è che al vertice non parteciperanno celebrità, non ci sarà un’agenda prestabilita, sarà come una partita di cricket, dove il gioco della diplomazia è molto complesso, per molti giorni si discute in sessioni noiose e in un linguaggio che può sembrare incomprensibile”, commenta Vidal, che è l’esperto d’ambiente del Guardian. “Molte trattative saranno inaccessibili. Per questa opacità delle informazioni bisognerebbe condannare le Nazioni Unite”."


Copenaghen, 7 dicembre 2009

foto: Adrian Dennis, Afp

Posta un commento

Da Messner a House: il G8 dell'alpinismo in video

0 commenti

BRESSANONE, Bolzano -- Chris Bonington, Hans Kammerlander, Doug Scott, Lynn Hill, Peter Habeler, Reinhold Messner, Cristoph Heinz, Steve House, Stephan Siegrist, Manolo, Simone Moro, Ines Papert. La lista dei nomi celebri che si sono visti passare dall'International Mountain Summit è veramente lunga e ha attirato a Bressanone tantissimi appassionati. "Big" e gente comune riuniti in una grande festa della montagna. Montagna.tv ha seguito la manifestazione da vicino: ve la racconteremo in una serie di video davvero imperdibili, a cominciare da questo!

Conferenze, escursioni sotto la guida del proprio alpinista preferito, con cui il pubblico ha mangiato, scherzato e camminato anche sotto la neve. Tantissime le persone che hanno partecipato ad ogni incontro, provenienti da tutta Italia e anche dall'estero. L'International Mountain Summit ha riscosso un successo di pubblico inaspettato dagli stessi organizzatori.

Sono questi ultimi Markus Gaiser e Alex Ploner, due giovani dinamici, fuori da ogni cerchia alpinistica che hanno creduto nel progetto e hanno saputo creare un evento senza precedenti. Qual è la chiave del successo della manifestazione? Gli alpinisti che fanno festa insieme alla gente: un'idea che piace ai "big" quanto alla gente comune.

"Sono molto impressionato da questo evento - ci ha detto per esempio Chris Bonington -. Considerando che è la prima edizione, è estremamente ben organizzato, con splendide sale conferenze e la traduzione simultanea. Il pubblico è enorme, interessato e attento. Le escursioni sono un'idea adorabile, anche dal nostro punto di vista. E' stato molto bello camminare e chiacchierare con persone di Italia, Austria, Germania, persino un ragazzo degli Usa".
Valentina d'Angella


Tratto da: montagna.tv


Video 1

Posta un commento

E’ ITALO ZANDONELLA CALLEGHER IL VINCITORE DEL PREMIO LETTERARIO NAZIONALE DI NARRATIVA “ALPINI SEMPRE”

0 commenti


Il Premio Letterario Nazionale di Narrativa “Alpini sempre”, verrà consegnato domenica 29 novembre 2009 (a Ponzone-Acqui Terme), ad Italo Zandonella Callegher, autore de La valanga di Selvapiana (Corbaccio).
Il riconoscimento, che Italo Zandonella Callegher riceverà dalle mani del Presidente Nazionale dell’ANA Corrado Perona, è stato conferito per le seguenti motivazioni:
E’, questa, una storia a suo modo epica di guerra, di alpini e di alpinismo, sullo sfondo di un paesaggio tanto infido quanto splendido nella sua altera imponenza, ai limiti dell’accessibilità. Nell’inverno 1915-1916, tra le torri e le guglie del gruppo dolomitico del Popèra, gli alpini Mascabroni, al prezzo di sforzi sovrumani e di inenarrabili fatiche, raggiungono la Cima Undici e conquistano il Passo della Sentinella, sfidando la “morte bianca” e mille altri pericoli. E’ una guerra condotta su due fronti: contro gli austriaci da un lato e contro la natura dall’altro, in un susseguirsi mozzafiato di episodi tragici ed eroici. Il tutto raccontato con asciutta sobrietà di stile, da cui tuttavia traspare, incontenibile, un’ammirata commozione.
La valanga di Selvapiana - giunto ormai alla sua terza edizione - ha vinto inoltre ilPremio Internazionale Città di Gaeta.


Posta un commento

Addio a Lino Lacedelli

0 commenti


Lino Lacedelli: storia di una vita

immagine generica
È stato il primo a conquistare la vetta del K2 e per questo, insieme ad Achille Compagnoni, è passato alla storia. Lino Lacedelli, classe 1925, ha firmato innumerevoli salite sulle Alpi, specialmente sulle Dolomiti, ed è stato uno dei padri dell’alpinismo italiano e internazionale. Lo ricordiamo qui, attraverso le tappe più importanti della sua vita sui monti e le foto scattate in alcuni momenti più importanti come nel cinquantenario della prima scalata della “montagna degli italiani”.
Lino Lacedelli nasce il 4 dicembre 1925 a Cortina d'Ampezzo, ai piedi delle Dolomiti bellunesi. Dalle montagne rimane subito affascinato, e all'età di 14 anni si avventura per la sua prima scalata sulle Cinque Torri, le vette che si innalzano proprio dietro casa. Scala in libera, senza usare alcuna corda e con le scarpe chiodate. Contravviene agli ordini del padre e mentre sale supera la guida Simone Lacedelli, legato con due turisti inglesi. E come riferiscono i suoi amici del sito degli Scoiattoli di Cortina, “per poi buscarle sia dall’uno che dall’altro".

Era il 1939, e proprio in quell'anno una decina di giovanissimi ragazzi fondavano l'Associazione alpinistica di Cortina, il gruppo degli Scoiattoli, di cui fu membro illustre Lacedelli.

Innumerevoli le salite per cui viene ricordato, anche se quella per cui è diventato famoso in tutto il mondo, uscendo dalla nicchia alpinistica ed entrando nei libri di storia, è la conquista del K2 del 1954, dove arrivò in vetta insieme ad Achille Compagnoni. Lacedelli a 29 anni diventava il primo uomo a mettere piede sulla seconda vetta della terra, la montagna degli italiani.

Quando fu convocato da Ardito Desio per questa straordinaria avventura, Lacedelli era giovane e scapolo, lavorava come idraulico, guida alpina e maestro di sci, con un'intensa attività alpinistica in Dolomiti, specialmente sulle Torri di Lavaredo, Tofane, Marmolada e Civetta, ma anche sul Grand Capucin, e sul Badile.

Già un ottimo curriculum quindi, anche se la vera svolta non poteva cha arrivare con la salita del 1954. Lacedelli ricordava il capo spedizione Desio come "un capo molto accorto ma anche molto duro, penso che fosse anche per la situazione difficile in cui ci trovavamo. Quando scendevamo dai campi alti, stanchi e dopo molti su e giù, capitava che ci rimproverasse per una dimenticanza o un'imprecisione. Sono tensioni, però, che si vivono in tutte le spedizioni. Devo dire che era sempre attento all’organizzazione ma anche alle nostre esigenze: ci ha sempre aiutati anche moralmente, e questo è stato molto importante per la riuscita della spedizione”.

Per il cinquantenario di quella salita l'alpinista di Cortina tornò al K2, dove sono state fatte alcune delle foto che trovate qui sotto nella galleria, scattate dalla spedizione K2 2004.  Il 2 dicembre dello stesso anno fu nominato Cavaliere di Gran Croce, Ordine al Merito della Repubblica Italiana, dal Presidente della Repubblica Carlo Azelio Ciampi, e gli fu consegnata la Medaglia d'oro al valor civile.

Tante altre poi le vie che portano la sua firma e le salite importanti, soprattutto sulle Alpi. La scalata della parete sud-ovest della Tofana di Rozes nel 1947, la difficile via sulla Cima Scotoni aperta nel 1952 con Luigi Ghedina e Guido Lorenzi. L'anno dopo la prima salita invernale sulla Croda Rossa, mentre nel 1959 scala il terribile spigolo nord-ovest della Cima Ovest di Lavaredo, detto poi Spigolo Scoiattoli".

E poi ancora molte altre prime salite ed eccezionali ripetizioni. Così tante che è impossibile ricordarle tutte e forse non è neanche importante farlo. Quello che invece è importante ricordare è il volto e l’esperienza di vita di uno straordinario scalatore, che ha fatto la storia dell'alpinismo italiano e mondiale.

Valentina d'Angella


Tratto da montagna.org

Vedere anche: E’ MORTO LINO LACEDELLI






Posta un commento

Alpinismo estremo ed etica. E il valore della vita?

0 commenti
immagine
BERGAMO – “Stile alpino”, “esplorazione”, “via nuova” e “leggerezza”. Ecco l’abracadabra dell’alpinismo odierno. Parole che solo a pronunciarle ti proiettano nell’elite degli alpinisti quelli veri, e che se applicate ti dispensano da qualsiasi critica perché rispondono all’etica alpinistica “giusta”. Ma, dopo l’ennesimo incidente mortale dell’anno, la domanda è inevitabile. Fino a che punto ci si può spingere? E’ giusto che nel nome di quest’etica assolutista si sottovaluti il valore della vita, o addirittura gli si giochi contro?

Siamo i primi ad amare la montagna, l’alpinismo e tutto ciò che vi ruota intorno. Lo dimostriamo tutti i giorni, nel bene e nel male, raccontando le loro storie. Lungi da noi l’intenzione di dar corda a chi usa l’infelice espressione della “montagna assassina” o a chi vede gli alpinisti come dei pazzi suicidi. Ma nei giorni scorsi ci siamo chiesti se non esista un limite.

La risposta a chi si sta domandando se non stiamo esagerando sono questi nomi. Tomaz Humar, Michele Fait, Roby Piantoni, Max Schivari, Serguej Samoilov, Oscar Perez, Piotr Morawski, Franc Oderlap, Cristina Castagna, Wolfgang Kolblinger, Go Mi Sun. E altri ancora. Non è la formazione dell’ultimo “dream team” diretto in Himalaya. Ma l’elenco dei morti degli ultimi mesi. Mesi, non anni.

“Scrivete sempre di morti”, è la frase che sentiamo ogni volta che succede un incidente. Quasi che la responsabilità dei fatti sia di chi li racconta e non di chi li fa. Quasi dovessimo far finta di niente, e continuare a guardare con i paraocchi un alpinismo idilliaco che sempre più spesso si trova a fare la conta dei caduti come un esercito in guerra. No, cari lettori. Questo non è giusto. “Noi non andiamo in montagna per morire, andiamo per vivere”, gridava Kurt Diemberger nel film “Karl”.

Ed è per questo che solleviamo la questione. Non per giudicare, ma per pensare. Per capire se questa “libertà assoluta” non sia in realtà una trappola. Una moda pericolosa, che attrae e poi tradisce. Siamo stati i primi a schierarci contro chi, di fronte alle tragedie dell’anno scorso, identificava la montagna e soprattutto gli ottomila come luogo di morte. Il dubbio è se non siano gli alpinisti stessi, in certi casi, a farlo diventare tale.

Ieri sera dipingevo, al corso di pittura, un ritratto di Simone Moro. Cinque dei trenta spettatori, tutti a digiuno di alpinismo, vedendo tuta d’alta quota e guanti, hanno chiesto orgogliosi del loro intuito: è Marco Confortola? No, dico io, è Simone Moro. Facce perplesse, nome mai sentito. Magari conoscono di più Confortola perché è della zona. Chiedo: seguite l’alpinismo? No, dicono loro, è quello a cui hanno tagliato i piedi. Non sapevano nemmeno cosa fosse il K2. Ecco l’immagine dell’alpinismo che ha la gente.

Cesare Maestri, uno che di certo non si è risparmiato in fatto di sfide al sapore di adrenalina, mi ha detto in una intervista, senza un attimo di esitazione, che “l’alpinista più grande di tutti i tempi è quello che rimane vivo”. Una lezione dimenticata?

Lo chiediamo a voi. Non pretendiamo di giudicare. E restiamo convinti che lo stile alpino, pulito e rispettoso della montagna, sia la massima espressione dell’alpinismo. Ma ancor più in alto ci dovrebbe essere il rispetto della vita. Vi chiediamo fino a che punto si debba arrivare nell’inseguire un’autodeterminazione senza limiti, un sogno a qualsiasi costo, un alpinismo che se non è senza tutto, anche senza la sicurezza dove è possibile averla, non è alpinismo.

Nei giorni scorsi parlavo con alcuni dei più forti alpinisti italiani, che stanno pianificando spedizioni per il prossimo anno. Spedizioni esplorative, ispirate allo stile alpino. Discutevano con approvazione di portarsi un medico al campo base. Negli stessi giorni, Humar, da solo su una parete sconosciuta, con un cuoco al campo base, telefonava in Slovenia per lanciare un Sos dall’altra parte del mondo. Il terzo della sua carriera. Il terzo e, purtroppo, il fatale.

Senza voler condannare nessuno, queste cose fanno sorgere delle domande. Allora i primi sono dei “vigliacchi” che non osano l’estremo, oppure è gente che ha imparato qualcosa dalla sua esperienza? E sì che tra loro c’era chi ha fatto la Sud dell’Annapurna, chi ha aperto vie nuove su ottomila e chi ne ha collezionati a iosa senza ossigeno. Nell'arrampicata le massime prestazioni, 8c, 9a e via dicendo, vengono compiute con corde e spit, e non per questo valgono poco. Perchè in Himalaya deve mancare tutto? Un paio di settimane fa ad un convegno qualcuno paventava il fatto che le previsioni del tempo e l'uso del telefonino dovessero essere considerate addirittura una forma di doping.

Ecco perchè ci si chiede se non si stia esagerando. E’ normale vedere il rispetto della vita come un limite alla libertà personale? Ci sarà chi vuole rispondere di sì. Ma provate a pensare alla stessa situazione sulle Alpi. O ad altre situazioni della vita, dalla droga alla velocità, all’uso dell’alcol, dove a volte si invoca la “libertà personale” per giustificare comportamenti discutibili,. La storia ha ampiamente dimostrato come l’idealizzazione della libertà assoluta dell’individuo, spinta all’estremo, non porti che alla confusione di valori e a un peggioramento totale delle condizioni collettive.

L’alpinismo sta dunque imboccando una strada di questo genere? Sta tornando brutalmente indietro all’alpinismo eroico dove mettere in gioco la vita è un imperativo e non un’evenienza a cui opporsi con intelligenza e preparazione? Oppure è solo allarmismo dovuto a una fatale catena di incidenti capitati tutti insieme per pura casualità?

Un’ultima domanda, forse ancora più agghiacciante. Riguarda la fama e quanto ne dovrebbe conseguire. Perché l’alpinismo, ormai si sa, fa notizia soprattutto quando c’è un incidente, un soccorso, quando c’è la vita in gioco e la morte diventa un gioco. L’alpinista, danzando sul filo tra la vita e la morte, cerca il senso della vita, oppure, biecamente, la fama?

Di ieri la notizia delle due alpiniste svedesi che hanno truccato le foto per vendere cime mai fatte. Cose contrapposte, se pensiamo alle solitarie estreme di chi non vuole nemmeno che si sappia cosa si è fatto (prima di aver conquistato la vetta, però). Ma non saranno segno dello stesso malessere? Del voler dimostrare di esserci, a costo della morte, per gli ultimi “eroi”, o dell’infamia per i bugiardi?


Sara Sottocornola   




Tratto da montagna.tv



Posta un commento

Simone Moro: più verità e cultura della rinuncia

0 commenti


immagineBERGAMO -- "E' un discorso difficile, come si fa a impedire la libertà nell'alpinismo, e poi si deve?  Bisogna fare chiarezza e fare cultura, e questa la fanno in primo luogo i protagonisti, che nei loro racconti dovrebbero esaltare un po' di più il valore della rinuncia e dei pericoli che si corrono in alta quota e che si dovrebbero sempre coscientemente evitare e limitare". Questo il parere di Simone Moro sulla questione dell'etica alpinistica e del rispetto della vita.

Sicurezza ed etica alpinistica. Che cosa ne pensi?
Per prima cosa ricordiamoci che la sicurezza molto spesso è data dalle tue abilità e dalle scelte che fai: per esempio di rinunciare quando sei ancora in tempo evitando di farsi accecare dall’ambizione, dallo sponsor  e dalla potenziale  fama.  Anche nel recente e lontano passato abbiamo avuto esempi di voluta e cosciente accettazione di rischi elevatissimi rifiutando di rinunciare alla vetta, per poi assistere ad una tragedia annunciata ed prevedibile. I pochi protagonisti sopravvissuti invece di chiedere scusa e di riconoscere gli errori (e dunque fare cultura e capitalizzare per se stessi e gli altri questa esperienza)  si sono venduti come eroi  cercando altrove colpe e responsabilità proprie. Un pessimo esempio di spazzatura alpinistica.
I rischi poi si possono  ridurre e preventivare facendo le cose per tappe, allenandosi come veri atleti, con autodisciplina severa, quasi stoica e non da ultimo  organizzando a tavolino l’eventuale soccorso (e capacità di autosoccorso) - magari prima che tu ne abbia bisogno, oppure  un  opzione B al progetto originario. Però bisogna pensare anche alle condizioni esterne: in Tibet  ed in altissima quota per esempio non c'è l'elicottero, qualsiasi soccorso viene a piedi e spesso da persone non sono per forza acclimatate e rapidamente disponibili.

Il numero di incidenti, comunque, sembra crescere in modo smisurato...
Il discorso è più ampio. Bisogna rendersi conto che oggi sempre più gente muore perchè sempre più gente va in spedizione. Una volta partire per una spedizione era un notizione. Oggi, ce ne sono talmente tante che giocoforza aumenta anche il numero degli incidenti, è una realtà anche statistica. Se guardiamo agli ultimi anni, Piantoni, Unterkircher, Ochoa, Morawski, Fait, Humar... non stiamo parlando di “brocchi” ma della crema della crema. E non è che sono morti perchè sono somari, ma perchè è capitato l'imponderabile. Se fossero stati a casa certo non sarebbero morti con quella dinamica ma non sarebbero stati protagonisti autentici e coscienziosi dei loro sogni e per favore non cominciamo a pretendere di insegnare cosa si deve sognare per se stessi. Semmai il come…. Insomma non c’è una decisione sbagliata dietro la morte dei personaggi che ho appena citato, mentre per moltissime altre tragedie la fine era quasi telefonata….

Un capospedizione può aiutare?
Avere il capospedizione forte, se da un lato può evitare l'anarchia, che ha generato delirio in tante spedizioni, dall'altro devo considerare che nei grossi incidenti recenti, un capospedizione forse non avrebbe potuto far molto, perchè sono capitati in giornate serene e condizioni ottimali, le loro abilità c'erano. Piantoni stava rinunciando, Ochoa ha avuto un edema. Devo dire che non credo molto nell'impostazione che vede il capospedizione a guidare tanti soldatini. Torneremmo alle spedizioni di Desio e a quelle di tipo sovietico, che rispetto ma non amo. L’alpinismo è anche individuo e individualità ed è su questo aspetto che dovremmo lavorare e raccontare in modo autentico (come fatto recentemente al I.M.S. di Bressanone) e non metterci a fare alpinismo militare, di gregge belante, magari a comando.

Nemmeno per le spedizioni dei giovani?
E' vero che ci sono tanti giovani che si lanciano troppo. E' difficile questo discorso, come si fa a impedire la libertà nell'alpinismo e l’irruenza giovanile che è stata propria di tutti noi? Forse facendo della cultura, e la cultura la fanno i protagonisti. Vedo troppa gente che si preoccupa di microfoni e media, prima ancora delle giuste tappe da fare prima di sognare in grande. Insomma io mentre  sto rispondendo a questa intervista ho ancora le mani sporche di magnesio e la sveglia puntata per andare tra poco  a correre due ore dopo questa pausa al PC, e questo tutti i giorni da 25 anni. Come me tantissimi altri protagonisti del mondo alpinistico realizzano e preparano minuziosamente le loro strepitose salite ed i nomi sono quelli che conosciamo tutti.

Sogniamo e progettiamo in  grande ma ci prepariamo in ugual modo e sappiamo comunque di non essere immuni da rischi e pericoli che spesso abbiamo evitato di affrontare quando troppo alti. Personalmente quando poi arrivano i microfoni e sono sul palco racconto proprio di questo, di cosa sta dietro una scalata e dietro queste 41 spedizioni che ho fatto. Quanto è importante avere paura,  rinunciare, palesare gli errori, essere autocritico prima che critico verso gli altri. Anche Messner diceva che su 30 spedizioni, un terzo sono state rinunce ed io sono cresciuto ed ho sognato basandomi su questo grande insegnamento che veniva proprio dal numero uno. Forse è il caso di esaltare un po' di più il valore della  fatica e della rinuncia, e forse qualcuno avrà meno vergogna a dirlo e andrà meno all'arrembaggio.

Un parere sull'alpinismo esplorativo...
Per fare un alpinismo esplorativo e di valore assoluto ( ovviamente mi riferisco ai professionisti o aspiranti protagonisti ) oggi non basta più fare le cose difficili di una volta. Bisogna alzare il livello personale e delle propre salite sempre di più, esattamente come l’asticella del salto in alto. Ma non deve essere una roulette russa, un alpinismo Kamikaze. Bisognerà rivedere tattiche, stili, tempi. Bisogna sempre tener presente che in quota non volano elicotteri, sono difficili, quasi impossibili i soccorsi, per lo meno in tempo utile. Quindi sarà sempre potenzialmente più pericoloso, bisogna stare sempre più con le antenne dritte, con una preparazione assoluta, la giusta dose di paura e  acuta capacità d’analisi. Sicuramente non basta un capospedizione col binocolo per sostituirsi al buon senso, pilotare le scelte in parete ed evitare i rischi. Non serve il poliziotto al campo base che  mi dica cosa e come devo scalare ma ci vuole un giusto atteggiamento personale.
Certo, alcuni personaggi, comportamenti deplorevoli  e tragedie annunciate, andrebbero accusate apertamente dalla comunità alpinistica ed isolati i protagonisti, ignorati e lasciati soli  a riflettere. Invece sono i personaggi  più gettonati e richiesti anche all’interno del nostro ambiente e questo la dice lunga su come siamo noi stessi i primi da educare.

Quale potrebbe essere, secondo te, la soluzione?
Siccome tutti noi abbiamo iniziato a fare alpinismo leggendo e sognando sui racconti del passato, sarebbe bello leggere ed esaltare le vere grandi gesta ( come avviene specialmente  nei paesi anglosassoni o dell’est), fatte da gente pulita , preparata, umile e rispettata, come pure le grandi gesta di rinuncia, di avventure senza vetta ma di valore tecnico ed umano, di esplorazioni fatte non per il record ma per la ricerca dello sconosciuto, di dare luce a ciò che era ancora buio . Sarebbe bello che gli alpinisti nelle loro serate raccontassero spesso  delle paure, dei pericoli accettabili ed accettati, degli errori da cui hanno imparato e non solo dei  loro successi o presunti tali. Altrimenti i giovani vedono solo campioni e falsi eroi e vogliono essere anche loro tali, con gli stessi mezzi, magari con poca fatica ed umiltà e la sola propensione a fare cassa.

Sara Sottocornola



Tratto da montagna.tv



Posta un commento

Montagne da raccontare

0 commenti



Tratto da montagna.org



"Un viaggio tra montagne e personaggi, una voce interiore che racconta un alpinismo classico tra neve e ghiaccio, sulle Alpi ed in Appennino, per guardare dentro noi stessi ed il mondo attorno". Ecco il primo libro di Davide Chiesa, alpinista piacentino che ha all'attivo numerose salite sia italiane che extra europee lungo vie normali, pareti Nord e vie nuove nonchè la scalata di oltre 130 cascate di ghiaccio.





"...ci sarà chi non si fermerà mai dal raccontare. Ci saranno sempre storie talmente interessanti da essere ascoltate, da essere seguite..."


Detto e fatto. Davide Chiesa, dopo aver pronunciato queste e altre affermazioni durante le numerose conferenze sull'alpinismo in giro per l'Italia, ha deciso di mettere su carta tutto il suo amore per le montagne.


"Montagne da raccontare" è un avventura tutta da scoprire stando comodamente seduti sulla propria poltrona. Una prefazione scritta dall'illustre alpinista austriaco Kurt Diemberger ci introduce in quello che sarà "una specie di diario molto originale scritto da un alpinista che non sogna e non parte per imprese spettacolari, ma è felice di scoprire l'ignoto anche sulle alture davanti alla porta di casa".


Più di un diario, più di un album fotografico, Chiesa prende per mano il lettore e lo accompagna su alcune delle cime che ha scalato: dall'Adamello al Monte Bianco, dalle Ande boliviane all'Appennino piacentino. Una continua ricerca e una continua sfida descritta in 224 pagine e 200 fotografie sia a colori che in bianco e nero.


I contenuti non sono di difficile comprensione. Non si tratta di un libro infarcito di tecnicismi, ma pieno di esperienze autentiche e avventurose, a volte ironiche, a volte commoventi. Le fotografie che corredano i testi non sono una semplice aggiunta, ma un modo per trasmettere le proprie sensazioni, mostrarle con estrema nitidezza.


Davide Chiesa, piacentino, è al suo primo libro. Noto per le numerose conferenze sull'alpinismo che tiene in tutta Italia, ha scalato più di centotrenta cascate di ghiaccio.



Pamela Calufetti

http://www.montagna.org/it/content/montagne-da-raccontare



 
 Titolo: Montagne da raccontare
Storie di Ghiaccio, di Avventure, di Uomini
Autore: Davide Chiesa con prefazione di Kurt Diemberger
Edizioni "Idea Montagna Editoria Alpinismo" (Padova)
Pagine 224 di cui 64 tavole a colori
Prezzo: 20,00 Euro



Posta un commento

L’IMPORTANZA DELLA VITICOLTURA DI MONTAGNA

0 commenti
Interviste video ed audio a Francois Stevenin e Gianluca Macchi

Posta un commento

Colle di Vers (2862 m) Valle di Bellino (IT)

0 commenti


Siamo in Val Varaita nella valle laterale di Bellino. La giornata non si preannuncia splendida. Un sole caldo, che presto ci abbandonerà, un cielo azzurro che diventerà grigio, poche nuvole che chiameranno le loro amiche per dar vita ad una piccola “nevicata”,  i prati ricoperti dalla prima neve e un torrente impetuoso. Dal parcheggio, vicino al Rifugio Melezè, raggiungiamo l'abitato di Sant'Anna. La strada è ghiacciata. Superiamo il ponte e il parcheggio estivo e arriviamo al bivio che ci porta ai piani Traversagn, in prossimità del torrente Varaita, ci incamminiamo sulla stradina che sale a tornanti verso sud. La sterrata estiva, che é innevata e in alcuni casi una lastra di ghiaccio, ci fa giungere sull’ampio e lunghissimo pianoro del Traversagn (vasto pianoro, disseminato di alpeggi e baite, decisamente fiabesco questa stagione). Una rapida sosta per ammirare la grandiosa parete nord della Marchisa, con le sue caratteristiche due vette. Attraversiamo il lungo pianoro lasciando la strada alla nostra sinistra. Saliamo puntando verso il gran dosso a destra della Rocca. Inizia ad esserci molta neve. Mettiamo le “ciaspole” e continuiamo a prima con un traverso, poi con con un guado di torrente, ricoperto di neve, verso la punta. Siamo all’ ultima rampa prima del colle (d’estate una pietraia di  sfasciumi: si capisce causa la poca neve, portata via dal vento, che fa intravedere ciò che c’è sotto). Ops … inizia a nevischiare… mancano poco più di 100 metri. al colle. Un rapido conciliabolo per decidere se proseguire verso il colle e la Rocca in funzione del tempo ormai inclemente. Ci facciamo forza e decidiamo la conquista del primo. Arriviamo al colle di Vers, a 2862 metri, che rappresenta il vero spartiacque tra le valli Varaita e Maira. Il panorama è veramente mozzafiato, nubi basse verso la Valle Maira, si intravede la cresta della Rocca, forse il “Chersogno”, forse qualcos'altro... Il tempo sta peggiorando ancora la neve trasportata dal vento si trasforma in nevicata. Dopo tanta fatica in fila indiana lasciamo il colle di Vers e ripercorriamo i lunghissimi pendii innevati verso il fondo valle. Il pranzo… il pranzo è contemplato nella gita ma quasi al ritorno alla macchina. Siamo all’inizio del piano Traversagn. Per fortuna non nevica più, anzi si sta aprendo. Ripartiamo. Mi correggo sul tempo… sono risalite le nuvole, un tempo da lupi; per fortuna mancano solo 200 metri alla macchina e ad una buona tazza di tea caldo.
Grazie ad Alberto per la bella gita fatta.



Posta un commento

Francys Arsentiev, storia d'amore e tragedia

0 commenti

Li chiamavano "Romeo e Giulietta della guerra fredda". Lui russo, lei americana. La loro storia, fatta di amore, morte e aria sottile. Parliamo di Francys Distefano, la prima donna americana ad aver salito l'Everest senza ossigeno, e Sergei Arsentiev, considerato uno dei più forti alpinisti della storia. La loro salita all'Everest fu il loro più grande successo e la loro condanna a morte. Francys, scendendo, si è accasciata a 8.600 metri, in preda ai deliri dell'alta quota. Vi rimase, agonizzante, per due giorni: accanto a lei passarono tanti alpinisti, ma solo il marito tentò disperatamente di salvarla, riuscendo a risalire dall'ultimo campo dopo ben 5 giorni passati nella zona della morte. Un gesto eroico, che è gli costato la vita.

Posta un commento

Moro e Urubko: nuova via al Lhotse

0 commenti

BRESSANONE, Bolzano -- Tornerà presto in campo la formidabile cordata italo-kazaka di Simone Moro e Denis Urubko, che lo scorso febbraio ci ha fatto sognare con la prima salita invernale del Makalu. Accadrà la primavera prossima, l'obiettivo sarà una nuova via sul Lhotse, 8.516 metri, la quarta montagna più alta della Terra. Lo ha annunciato lo stesso Moro, pochi giorni fa, all'International Mountain Summit, il grande evento di montagna e alpinismo che la scorsa settimana ha radunato centinaia di appassionati al Forum di Bressanone.

Posta un commento

Col des Fontaines (2696 m) Valtournenche (IT)

0 commenti

Dopo tanto tempo sono ritornato in Valtournache. Forse nella più bella conca di tutta la Valle d'Aosta: quella di Cheneil dove dopo una salita un po' ripida che dura però solo 100 metri, si apre ai nostri occhi, enorme, bianca (a pois), con una tranquilla frazione che di nome fa Cheneil... appunto.
E tutto intorno a questa piana le meravigliose cime della Roisetta, del Grande e Petit Tournalin, della stranissima Becca d'Aran e di quella montagna a forma di spicchio di Parmigiano... come si chiama... ah sì il Cervino (scusate se è poco).
Siamo infatti in Valtournenche, la valle di Cervinia.

Sono le 10:20 passate e da  Cheneil risaliamo per un pezzetto il sentiero estivo dell'Alta Via n.1 della Val d'Aosta, ma a quota 2200 circa, svolteremo a destra per arrivare al colle di Fontana Fredda proprio sotto la cima di Punta Falinere.
Qui, nei pressi del passo, c'è il Santuario de la Clavalitè, punto così panoramico e isolato, che viene utilizzato nel periodo estivo per lanciarsi con il parapendio. E' un pezzo di storia a quota 2500m.

Sole, panorami e piccola sosta al passo.
Non siamo ancora contenti della prima e poca neve che abbiamo pestato e ci dirigiamo verso il colle di Nana.
Traversiamo sotto la punta Falinere. E'tardi (le 13 scarse e lo stomaco inizia brontolare) e manca ancora un ora al colle.
Per completare bene la giornata e la gita puntiamo verso il Col des Fontaines, balcone su tutta la valle.
Il ritorno lungo la cresta spartiacque e il sentiero di salita.

Grazie ad Alberto per la gita effettuata insieme



Posta un commento

Roby Piantoni muore sulla Sud dello Shisha

0 commenti
BERGAMO -- Roby Piantoni, 32 anni, è morto questa notte sulla parete sud dello Shisha Pangma. La notizia è arrivata nel cuore della notte in Valseriana. Nel giro di poche ore è dilagata, fra incredulità e dolore, tra famiglia, amici e appassionati. Che cosa sia accaduto di preciso, è ancora un mistero. Ma la tragedia, purtroppo, sembra ormai certa e pare sia avvenuta durante un tentativo di salita sulla via Scott.

Posta un commento

Punta di Leppe (3305 m) - Valle di Cogne (IT)

0 commenti









E’ venuto il momento di ritornare nel Grauson. E’ fresca l’aria di Gimillan, in questo mattino di inizio ottobre.
La brina ricopre i campi bruciati dalla siccità estiva, che perdura ancora adesso. Non si entra nel villaggio ma si passa a destra sulla strada asfaltata che dopo pochi metri incontra il sentiero che sale per i pascoli dietro le case. Il sole inonda già il vallone del Pousset, con i lariceti coloratissimi, la Grivola e le sue sorelle minori imbiancate di fresco mi inducono già a tirare fuori la macchina fotografica. Oggi sarà una gran giornata, il cielo è di un blu cobalto, non si vede l’ombra di una nuvola.
Il freddo ci induce ad accelerare il passo. Ci inoltriamo lungo il sentiero, che attraversa a mezzacosta il profondo vallone scavato dal torrente Grauson, scendiamo al ponte di Ecloseur, sempre nell’ombra, e risaliamo per gli opposti pascoli, nel silenzio più totale. Ecco l’Alpe Pila, con la sua sempre bella cascata. Ed ecco il favoloso bosco di larici, incredibilmente colorato, anche se non ancora illuminato dal sole.

Ed eccoci, finalmente, al tepore gradevole del sole di ottobre, siamo alla spalletta che precede l’Alpe Grauson Vieux. Una pausa è d’obbligo, mentre dietro di noi dominano Grivola e Gran Nomenon, e di fronte comincia ad apparire l’inconfondibile piramide della Tersiva. Ripartiamo subito, rituffandoci ben presto nell’ombra. Attraversiamo il torrente su un ponticello e ritroviamo presto il calore del sole. Proseguiamo lungo il sentiero, trai pascoli bruciati da gelo e siccità, mentre tutto il vallone del Grauson si apre davanti a noi, chiudendosi con la Grivola ed il lontano passo d’Invergnaux. Ecco al bivio: proseguendo per il sentiero principale andremmo verso i Laghi Lussert. Noi prendiamo la deviazione a destra, per il Lago Coronaz. Si sale per praterie. Si superano alcuni dossi, e si giunge in vista di un grazioso laghetto, nel quale si specchia l’imponente mole del Monte Grauson. E questo piccolo specchio d’acqua, non è altro che l’assaggio del più vasto e poetico Lago Coronaz, che si stende a 2701 m di quota, incastonato tra dolci declivi, chiazzati di neve biancheggiante, nel quale si specchiano la nostra Punta di Leppe e la Punta Garin. Di qui proseguiamo sul sentiero che si dirige  verso il Colle di Saint Marcel (29xx), lasciando sulla destra quello che porta al Colle di Laures. Proseguiamo fino al colle e da qui iniziamo la bella ma non banale (tutte le creste anche le più facili non sono banali) cresta che collega il Colle di Saint Marcel al Monte Vallonet (3098 m), al colle omonimo (3062 m). Davanti a noi s’innalza il ripido crestone erboso che conduce alla cima. I primi metri spezzano gambe e fiato. E’ davvero ripido, ma una traccetta, che percorre prima il filo di cresta, si porta poi sul detritico versante est. La vetta si avvicina, il panorama si fa sempre più ampio. Passiamo sotto la cresta che si fa rocciosa, e con marcia faticosa su mobile detrito arriviamo ad una specie di conca compresa tra tre puntine. Quella a destra, la più alta, è la Punta di Leppe. Eccoci in vetta. Da restare senza parole. Là, in fondo appare Cogne, con il prato di S.Orso. E poi ci sono tutti i colossi valdostani. Il Bianco, il Combin, il Cervino, il Rosa, il Grampa. Non manca nessuno all’appello. Il vicino Emilius copre parte del Bianco, ma il resto è uno spettacolo. Sulla pianura, oltre il Mont Glacier, si stende un tappeto di nubi. Qui sotto decine di laghi: i Lussert, il Coronaz, i fantastici laghi di Laures, incastonati come gioielli in mezzo a desolante pietraie. Le montagne hanno i classici colori d’autunno, con le prime spolverate di neve. Ci muoviamo dalla vetta molto tardi, sono quasi le tre del pomeriggio. Quasi scivolando sul detritico versante est siamo al colle. Di qui, scendiamo direttamente sulla conca del lago Coronaz. Rieccoci sulle sponde dello specchio d’acqua.
Alle quattro passate del pomeriggio siamo all’Alpe Grauson. Ci dissetiamo all’ottima fontana del casolare isolato che c’è sotto l’alpeggio. Silenzio. C’è così silenzio che fischiano le orecchie. Riprendiamo il cammino, mentre le ombre del pomeriggio si allungano davanti a noi. Ci fermiamo ancora all’Alpe Grauson Vieux, all’ultimo sole. La discesa prosegue, il vallone si fa poesia pura, i larici, illuminati dal sole pomeridiano esplodono in un caleidoscopio di colori.
E’ difficile descrivere ciò che si vede. C’è da restare senza parole, è come trovarsi di fronte ad un capolavoro del Louvre. Ti viene solo da ringraziare chi ci permette di vedere questa magnificenza di colori. Non badiamo neanche più alla stanchezza, che ormai si fa sentire, rapiti dalla bellezza e dalla solitudine del luogo. Rieccoci ad Ecloseur, la piccola risalita, il traverso a mezza costa. Poco prima di Gimillan uno sguardo verso la Valnontey, e verso l’ultimo raggio di sole che illumina di fredda luce il Colle Chamonin e la Punta di Ceresole. Ecco i prati, ecco le case, ecco Gimillan.








Posta un commento

Mondinelli e Bernasconi alla Nord del GI. Per Karl

0 commenti



Posta un commento

Monte Maniglia (3177 m) - Valle Maira (IT)

0 commenti
Si parte dalle Grange Collet (2006 m, parcheggio), su una mulattiera che percorre il fondovalle, risalendo la valle del Maurin, passa l'omonima grangia (2143 m) e, sempre sul GTA, il vallone del Rio Autaret.
A circa 2430 m, dal sentiero GTA si stacca sulla sinistra un sentierino (palina) per la Bassa di Terrarossa.
Il sentiero, segnato dal bivio alla Bassa di Terrarossa con segnavia (quadrato rosso vuoto), sale per pratoni e roccette, raggiungendo una pozza d'acqua. Successivamente il percorso si snoda lungo la valle di Ciabriera che si percorre prima verso nord e poi, da una spalla, piega verso nord-est; ma attenzione, le tacche di vernice sono difficili da individuare, anche perché il percorso è abbastanza imprevedibile, e non è assolutamente banale individuare il segno successsivo. Questa parte del percorso quindi, pur svolgendosi su erba, massi e roccette non particolarmente impegnative e pur non essendo né esposta né difficile, è la più delicata dell'intera gita, proprio per le difficoltà di orientamento .
Da quando si raggiunge la spalla e, ormai in vista della Bassa di Terrarossa, si piega verso nord est, l'orientamento è meno complesso. Si sale ancora e, aggirando uno spuntone roccioso su una traccia che passa alla sinistra, su pietroni e sassi , si arriva alla Bassa di Terrarossa (davvero…rossa!)(2838 m, 3.00 dal Campo Base).
Dalla Bassa (raggiungibile con sentiero anche da S.Anna di Bellino) si risale il crestone spartiacque, ma oggi inutile continuare a causa della inesistente visibilità sul sentiero e sul panorama circostante. 













Posta un commento

Mike Bongiorno: il ricordo di Rolly Marchi

0 commenti

Mike Bongiorno: il ricordo di Rolly Marchi

Shared via AddThis

Posta un commento

Monte Avril (3347) - Valle di Ollomont (IT)

0 commenti

Bellissima giornata "estiva". Lasciamo Glassier (6:40), estrema periferia nord di Ollomont, provincia di Valpelline, con 4 gradi centigradi e la perfetta sensazione di avere una montagna interamente per noi. Nessuno nei paraggi. Con l'elasticità di un gatto di marmo, incominciamo la larga mulattiera che parte cento metri prima dell'ampio parcheggio, dove ha termine la strada asfaltata.
La comoda mulattiera lascia la minuscola frazione di Glassier ancora ben intorpidita nel primo mattino. La luce, che dirompe dal fondo valle, regala la classica alba sulla regolare piramide della Grivola. La catena dei Morion è solo una silhouette nera che impedisce al sole di riscaldare le gelide raffiche d'aria svizzera, che precipitano lungo l'altipiano sovrastante. Il segnavia numero 5 indica la direzione corretta.
Ritornando sulla strada si raggiunge l'Alpe Thoules, ai piedi del contrafforte del Mont Gelè. Sono più di due ore che cammino ed i Morion non lasciano ancora passare la luce solare. Intanto la temperatura è scesa di un altro grado. Il sentiero si rifà vivo per proseguire in direzione della Fenêtre Durand. Inizia l'attraversamento di un bel piano, finalmente illuminato dal sole, che riesce a fare breccia attraverso i denti rocciosi dell'estremità nord dei Morion.
Il caldo abbraccio dura ben poco e la traccia, molto ben segnalata, continua salendo un ripido salto erboso, sopra il quale è situata una zona decisamente brulla, fatta di pietre, dall'aspetto vagamente simile ad un campo lavico o lunare. Rigorosamente all'ombra del mattino, il sentiero si intrufola con cambi di direzione irregolari nella pietraia, disegnando un tracciato improbabile fino all'uscita dal labirinto. Con la Fenêtre ben in vista, la marcia prosegue su terreno ora erboso, ora su sfasciumi. Sotto la tenebrosa parete ovest del Gelè si cela il Lago Fenêtre. Ancora pochi minuti e si giunge al confine svizzero.
L'arrivo alla Fenêtre Durand, ancora in ombra, non concede chissà quale vista ad eccezione della scoscesa e gelida parete nord del Mont Gelè, una ben levigata lavagna con un evidente canalone centrale che sfocia sul ghiacciaio denominato Glacier de Fenêtre. Impressionante, quanto vicina, la crepaccia terminale, vera e propria trappola. Questo deve essere un posto dove neanche in piena estate viene concesso un momento di sole. La luce blu-verdastra, dipinge, con toni delicati quanto assolutamente freddi, quest'angolo di mondo, rafforzando con estremo vigore il senso di inospitalità della bastionata di roccia che digrada con austera fierezza dalla vetta del Gelè, verso la valle di Mauvoisin.
La marcia prosegue in direzione O su tracce sempre ben visibili lungo la cresta Est del Mont Avril. E' tutto molto semplice, logico, facile e privo di pericoli. La lunghezza della salita è l'unico nemico di questo straordinario punto panoramico, che nasconde le più preziose gemme fino a pochi metri dalla vetta. L'obiettivo finale è sempre ben visibile, evitando la brutta sorpresa di un indesiderato supplemento di salita. La meta viene raggiunta sempre con estrema facilità, procedendo lungo sfasciumi, fino a giungere alla fascia di rocce solide che delimitano la sommità del Mont Avril. L'arrivo in vetta (11:50), con l'improvviso manifestarsi del Grand Combin, è un indescrivibile attimo di pura gioia e semplice grandiosità.
Come il fratello maggiore Gelè, l'Avril è una montagna "appoggiata" sui versanti meridionali, per erigersi verticale sul contrafforte settentrionale. Meno sontuoso del vicino è il salto a Nord, ma fortemente motivante il panorama che si gode da questa straordinaria montagna. Il grande ghiacciaio di Mont Durand, ai piedi del Gran Combin, è l'assoluto dominatore incontrastato della scena. Bellissimo l'allineamento delle punte, seguendo con lo sguardo in direzione Est. Dent d'Herins e Cervino, parzialmente occultati dai denti della Sengla, poi il Monte Rosa, circoscritto a destra dall'Epicoun. Nelle più immediate vicinanze è la lunga lingua dell'Otemma a stupire, dando regale sostegno al gruppo dell'Arolla, del Mont Blanc de Cheilon, la Serpentine, la Ruinette, a loro volta impreziosite dal ghiacciaio a balcone del Brenay. La vista a nord si ingentilisce con il turchese pallido del lago di Mauvoisin.
Le tre vette principali del Gran Combin, di Valsorey, di Grafeneire (la punta più alta, 4.314 m.) e della Tsessetta, lasciano la scena al Mont Velan ed ai suoi ghiacciai del versante svizzero. Il Monte Bianco rimane nascosto dalla calotta terminale del Velan. Con un binocolo è possibile ammirare l'Aiguille du Midì, con le cabine della funivia che scompaiono inghiottite dal pinnacolo roccioso. E' un dettaglio infinitesimale nell'oceano di vette che si stagliano a perdita d'occhio da qua sopra. Molto più visibile il profilo delle Grandes Jorasses. Proseguendo il giro, trovano spazio le propaggini sud est del Bianco, il Rutor, la Grivola ed il Gran Paradiso. La catena dei Morion ha un aspetto meno lugubre, ora che il sole incomincia a rigarne il profilo occidentale. Invariata l'impressione che desta la nord del Gelè, meno opprimente, dato il diverso angolo di visione, ma sempre così glaciale ...



Posta un commento

Nives Meroi abbandona la corsa dei quattordici 8000

0 commenti

Nives Meroi abbandona la corsa dei quattordici 8000

Shared via AddThis

Posta un commento

Aiguille de la Grande Sassière (3751 m) Val d'Isere (FR)

0 commenti

E’ la vetta più alta delle Alpi tra il colle di Cadibona e il colle de la Seigne, ed inoltre la più alta raggiungibile in semplice assetto escursionistico quando è libera da neve. Unico neo la distanza.. io e Alberto percorriamo i 160 km fino a Le Saut, passando per i colli del Moncenisio e dell'Isoard , in 3 ore.

Partiamo da Le Saut 2260 m alle 6.40, sono già sveglio da 4 ore ma non sento la stanchezza. Per prudenza ci portiamo dietro uno spezzone di corda i ramponi e la piccozza.. tutto peso inutile scopriremo dopo. Il sentiero attacca subito per i prati con una pendenza assassina, prendo subito un buon passo, si effettua un luungo ma panoramico traverso, superiamo la prima fascia di elementari roccette, e proseguiamo sempre a gran pendenza su una dorsale. I pascoli lasciano spazio ai detriti, questo è il regno del Genepi.

La salita seppur a tratti molto faticosa, è molto bella e panoramica, l’ambiente di questa dorsale quasi lunare, un’enorme distesa di sfasciumi. Dopo un tratto in leggera discesa, il sentiero attacca di nuovo dritto per la massima pendenza, portandoci a superare la seconda fascia di roccette, assolutamente elementare (I°), sbucando sulla cresta sud ovest della Grande Sassière, intorno ai 3300 m. La parte finale della gita è ormai tutta visibile, il ghiacciaio è ritirato più in basso rispetto al filo di cresta, non lo si sfiora nemmeno.

Il pendio finale appare ripidissimo, e già immagino si farà fatica.. Il sentiero va su per la massima pendenza ma è ben tracciato, nonostante il terriccio cedevole si sale bene. La pendenza del pendio è sui 35-40°, con neve sicuramente non sarebbe così banale.

La quota si fa un po’ sentire, mi viene il fiatone, ma continuo perché altrimenti non riparto più. Riprendo fiato un paio di volte, e arrivo in vetta… a 3751 m di quota, 4 ore e un quarto per coprire i 1500 m di dislivello dalla partenza.. il sentiero rendeva, direi!!

C’è diversa gente in cima, alcuni italiani, e tanti francesi. Rimaniamo in vetta due ore abbondanti.. il panorama è stupendo, dal Bianco alla Valgrisanche, al Grampa, alle Aiguille Rousses dov’ero domenica scorsa, a tutte le montagne delle mie valli viste “da dietro”.

Alle 12.20 cominciamo la discesa, con tutta calma, ammirando il panorama di questo insolito angolo di Alpi. Man mano che scendiamo il caldo si fa sempre più insopportabile, e con esso l’arsura della gola, finalmente a 2400 m troviamo una piccola sorgente con cui placare la sete. Alle 16.15 finalmente siamo a Le Saut.





Posta un commento

Cristina Castagna muore sul Broad Peak

0 commenti
Cristina Castagna muore sul Broad Peak

Shared via AddThis

Posta un commento

ALLALINHORN (4027 ) - Massiccio del Mischabel (CH)

0 commenti

Emozioni purissime e molto intense alle alte quote: anche se questo è il quinto 4000. Per iniziare l'avventura di alpinismo, questa vetta insieme al Breithorn, è molto consigliata, ma sempre con l'ausilio di una persona esperta, sul ghiacciaio non si scherza.


Dalla vetta la vista è incredibilmente aperta e vasta, dalla Svizzera all'Italia con decine di cime per la maggior parte oltre i 4.000 metri. A completare il Massiccio omonimo, Strahlhorn, Rimpfischhorn, Alphubel; molto vicini Dom, Taschhorn, Lenzspitze... più lontani Cervino, Dent Blanche, Weisshorn... e il Monte Rosa con Gnifetti, Zumstein, Dufour, Nordend, Lyskamm, Castore, Polluce, Roccia Nera, Breithorn...


Peccato che sabato il tempo non ci ha aiutato. Tempo molto nuvoloso.


Grazie a: Alberto, Marco ed ai nuovi amici di MONTAGNA E NATURA.



Posta un commento

Marguareis (2651 m) - Valle Tanaro (IT)

0 commenti

Con i suoi 2651 m. è la montagna più alta delle Alpi Liguri e una delle maggiori aree carsiche d'alta quota dell'arco alpino.
I due versanti hanno caratteristiche diverse. Quello settentrionale, che si affaccia sulla Valle Pesio, è costituito da una falesia rocciosa, ricca di canaloni innevati fino a stagione inoltrata e cenge detritiche; più dolce quello meridionale, la cui natura carsica ha determinato la presenza di una morfologia caratterizzata da campi solcati, doline, pozzi e inghiottitoi.


Lasciata la macchina al divieto (parcheggio) si attraversa il Piano Marchisio lungo la sterrata e a q. 1654 si lascia la pista per seguire il sentierino che s'inoltra nel valloncello Ciappa. A q. 1871 il sentierino s'innesta sul tronco (GTA) che proviene dal rifugio Mondovì (Havis de Giorgio), quindi supera la ripida testata rocciosa del valloncello raggiungendo la Porta Biecai (1998 m). Si passa nei pressi del lago Biecai (frequentemente in secca) e, abbandonando il sentiero gta che sale alla Porta Sestrera, si segue il tronco che verso sinistra raggiunge il lago Rataira (2171 m). Il sentiero (ancora innevato) si porta quindi sull'ampia sella del colle del Pas (2342 m) dominante a meridione la carsica conca di Piaggia Bella e la Capanna Saracco-Volante. Si scende sul versante opposto innevato, (facendo attenzione a non scivolare sul piccolo muro formatosi dalla neve sul versante Val Tanaro) sino a q. 2270 dove sulla destra si intravedono tracce di un sentiero (in estate tacche rosse evidenti) che sale in direzione del canale che scende dal colle Palù. Lasciamo la traccia per colle e percorriamo un lungo tratto con saliscendi a mezzacosta attraverso diverse conche carsiche, a tratti con scorci molto panoramici sui sottostanti Vallone di Carnino e Vallone dei Maestri ( attenzione: lasciare subito la deviazione a sinistra per il Passo delle Mastrelle) fino quando inizia a scendere deciso verso il rifugio Barbera. Qui  lo si abbandona per deviare a destra per traccia, prati e pietrame, (segnavia rossi e ometti indicatori). Da qui riusciamo già a scorgere la Cima sud del Marguareis, che ci guida nella salita, fino al Colle della Gaina, (problemi in caso di nebbia). Si sale seguendo il sentiero, ora meglio tracciato, fino a pervenire al Colle di Gaina m. 2360 c., tra la cima omonima a sinistra e la Cima Sud del Marguareis a destra. Qui incontriamo il sentiero che sale da Colle dei Signori.
Saliamo  sul “sentiero” di sinistra per la cresta del Marguareis fino in vetta. Procediamo lenti, comunque pian pianino procediamo ed infine raggiungiamo la croce di vetta.




COMMENTI: la descrizione non è precisa causa escursione effettuata con tratti coperti da neve.
Gita impegnativa non per difficoltà tecniche ma per il lungo percorso effettuato.
Portare grandi quantità di acqua perché non vi sono luoghi per l’approvigionamento (Rifugio Mondovì - Havis de Giorgio ad inizio e fine percorso se il rifugio è aperto).




Posta un commento