Aconcagua, Mondinelli intasca la cima

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ALAGNA VALSESIA, Vercelli -- Torna dal Sud America con un nuovo successo, Silvio Mondinelli. L'alpinista bresciano ha salito i 6.962 metri dell'Aconcagua il 22 gennaio, insieme al gruppo di amici con i quali era partito soltanto dieci giorni prima. "E' un allenamento in vista della spedizione alla Nord del GI" aveva detto prima di partire. E se chi ben cominicia è a metà dell'opera, allora quello del Gnaro nazionale promette di essere un anno ricco di emozioni...

"Quasi vorrei dire che non è bello perchè non si prova paura!" scherza Mondinelli, abituato a ben altre altezze, quando gli chiediamo della spedizione appena conclusa che lo ha riportato per la seconda volta, dopo tredici anni, sulla vetta più alta del Sud America. E' salito in cima dopo soli dieci giorni dalla partenza, e sembra tornato da una passeggiata.  

Poi, però, ritorna serio. "L'Aconcagua non è una montagna difficile - dice Mondinelli -, ed è un buon banco di prova per chi vuole iniziare ad andare in alta quota. Ma anche lei ha i suoi pericoli. Ho visto tante persone andare via in elicottero perchè soffrivano di congelamenti, traumi, e anche lì accadono tragedie. L'importante, non mi stancherò mai di ripeterlo, è avere rispetto per ogni montagna e umiltà nello scalare".

Le condizioni trovate in Argentina erano perfette. E la salita è andata liscia come l'olio. Con lui, sulla vetta, c'erano gli amici Enrico Dalla Rosa e Corrado Pesci, che sperano in futuro di arrivare a quota ottomila. Ma la montagna era molto affollata.

"Sono andati in cima molti italiani mentre ero laggiù - racconta Mondinelli -. C'era il gruppo di Plamen Shopski, guida bulgara che opera a S. Caterina Valfurva con la Planet Trek, e c'era un ragazzo di Alba. Noi siamo arrivati in cima con dei ragazzi di Genova. Al campo base, in totale, c'erano circa 300 o 400 persone. Sono stato felice di reincontrare tanti amici che avevo conosciuto anni fa, durante la mia prima spedizione all'Aconcagua".

Mondinelli, laggiù, ha anche icontrato i fratelli Benegas, che accompagnano all'Aconcagua l'ultrarunner Diane Van Deren, che vuole siglare il record di velocità nella traversata della montagna. Willie Benegas è stato sull'Aconcagua oltre 20 volte, di cui una in meno di ventiquattr'ore.

Ecco le immagini della spedizione

Sara Sottocornola


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Auschwitz, preghiere e ricordi per celebrare il giorno della Memoria

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Sopravvissuti all'Olocausto, reduci russi, politici, studenti
Insieme nel campo divenuto museo, a 65 anni dalla liberazione

In Italia manifestazioni e convegni, il premio Nobel per la pace Wiesel parla alla Camera


TRATTO DA: La Repubblica














Il numero identificativo impresso sul braccio di un ex internato nel campo di sterminio di Auschwitz

VARSAVIA - Ci sono gli ex internati del campo di concentramento di Auschwitz-Birkenau, i reduci dell'Armata rossa che 65 anni fa liberarono il campo, studenti da tutta Europa, e molte personalità politiche, tra cui il premier israeliano Benjamin Netanyahu. Insieme nel luogo che è divenuto il simbolo del ricordo dell'1,1 milione di vittime dell'Olocausto, nel giorno della Memoria che coincide con l'anniversario della liberazione del campo.


Le sirene di Auschwitz risuoneranno di nuovo alle 14,30 per marcare l'inizio delle cerimonie in quello che fu il più grande campo di sterminio installato dai nazisti nella Polonia occupata.
I partecipanti alle commemorazioni si raccoglieranno davanti al memoriale di Birkenau per recitare il kaddish (la preghiera ebrea dei morti) e preghiere ecumeniche e per ascoltare i discorsi ufficiali. Tra il 1940 e il 1945, circa 1,1 milioni di uomini, donne e bambini, di cui un milione di ebrei provenienti da tutta Europa, sono morti in questo luogo.

In mattinata, il Congresso ebraico europeo terrà una conferenza a Cracovia, nel sud della Polonia a circa cinquanta chilometri dal campo, a cui il presidente americano Barack Obama inverà un messaggio video. In contemporanea, i ministri europei dell'istruzione rifletteranno sui metodi di insegnamento ai giovani delle lezioni di Auschwitz.

In questa che l'Onu ha dichiarato universalmente Giornata della memoria, verrà anche inaugurata una mostra in Russia sulla liberazione del campo, che è l'unico tra i campi di sterminio nazisti ad essere stato preservato così come fu abbandonato dai nazisti in fuga di fronte all'avanzata dell'Armata rossa. Oggi è divenuto un museo, tornato di recente nelle cronache per il trafugamento dell'insegna di ferro posta all'ingresso ("Il lavoro rende liberi"), poi ritrovata. Altri campi installati in Polonia, come Sobibor, Treblinka o Belzec, vennero completamenti distrutti dai nazisti. Il museo di Auschwitz, che comprende le circa 300 baracche in cui vivevano reclusi gli internati e le camere a gas in cui vennero sterminati, è stato visitato da 1,3 milioni di persone nel 2009. 



In Italia. Numerose le iniziative, oltre ai treni organizzati da sindacati e scuole alla volta di Auschwitz. Il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano presiederà alle celebrazioni ufficiali a Roma, il cui momento culminante sarà il discorso alla Camera del premio Nobel per la pace Elie Wiesel alla presenza del capo dello Stato e del presidente della Camera Gianfranco Fini. 

Preghiere in sinagoga, mostre storiche e spettacoli teatrali, convegni e concerti in tutta Italia. Il momento più solenne si svolgerà al Quirinale quando, alla presenza del capo dello Stato Napolitano, il sottosegretario alla presidenza del consiglio Gianni Letta consegnerà le medaglie d'onore ai cittadini italiani deportati e internati nei lager nazisti. Cerimonie e celebrazioni si svolgeranno in tutte le città d'Italia, a partire da Milano, Torino, Bologna, Genova, Firenze, Bari e Cosenza. Sempre al Quirinale, si tiene poi la premiazione delle classi vincitrici del concorso "I giovani ricordano la Shoah". Ancora a Roma, il comitato "Memoria, dialogo, pace" organizza un dies memoriae a cui parteciperanno mons. Rino Fisichella, il rabbino capo di Roma Riccardo Di Segni, l'ambasciatore d'Israele Ghideon Meir e il ministro della Gioventù Giorgia Meloni. Il presidente del Senato celebrerà l'evento alle risiere di San Sabba. In serata, alle 20.30 alla sinagoga di Roma, i sopravvissuti ebrei ai lager incontrano insieme la comunità ebraica di Roma con il loro presidente Riccardo Pacifici e il rabbino Di Segni.


(27 gennaio 2010)


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Shoah, il Giorno della Memoria Wiesel: "Ricordare servirà ai vivi"

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Le celebrazioni in tutta Europa. Ad Auschwitz i sopravvissuti con il primo ministro israeliano
Napolitano: "Una pagina carica di insegnamenti". Indignazione per le scritte antisemite a Roma
Il presidente del Congresso ebraico: "Attenzione all'Iran, Ahmadinejad come Hitler"
L'attacco di Teheran a Israele: "Arriverà il giorno della vostra distruzione"

TRATTO DA: La Repubblica
Shoah, il Giorno della Memoria Wiesel: "Ricordare servirà ai vivi"
Elie Wiesel alla Camera dei deputati
ROMA - Nel Giorno della Memoria l'Europa si è fermata per ricordare le vittime della Shoah. Dalla Polonia all'Italia, sono state tantissime le manifestazioni che hanno celebrato il 65esimo anniversario dal giorno in cui i soldati dell'Armata Rossa hanno liberato i prigionieri di Auschwitz-Birchenau, scoprendo gli abissi della crudeltà umana. Proprio ad Auschwitz si è svolta la cerimonia principale, cui hanno preso parte il primo ministro israeliano Beniamyn Netanyahu, il presidente della Polonia Lech Kaczynky, il premier polacco Donald Tusk e il presidente del Parlamento Europeo, il polacco Jerzy Buzek. Insieme a loro i sopravvissuti, sempre di meno con il passare degli anni, ma pronti a tutto pur di essere lì a lasciare il loro messaggio ai giovani: "Non dimenticate". E puntuale come non mai, è arrivato anche l'ennesimo attacco verbale a Israale da parte di Teheran: "Arriverà il giorno della vostra distruzione".

In Italia è stato il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, a presiedere le celebrazioni al Quirinale. "La Shoah - ha detto il capo dello Stato - è un'esperienza tragica carica di insegnamenti e di valori". A Montecitorio il presidente della Camera Gianfranco Fini ha ricevuto Elie Wiesel, ex internato ad Auschwitz e premio Nobel per la pace nel 1986. Nella notte sono apparse delle scritte antisemite in alcune vie della capitale, tra cui via Tasso, di fronte al Museo della Liberazione. Unanime è stata la condanna per un gesto che il sindaco della città ha definito "un'offesa senza pari al rispetto della dignità umana".
Le celebrazioni a Roma. "I diritti dei popoli sono inalienabili  -  ha detto Napolitano  -  e tra questi ci sono quelli del popolo ebraico e dello Stato di Israele a vivere in sicurezza: un impegno riconosciuto da tutti". Così il capo dello Stato si è rivolto al presidente dell'Unione delle comunità ebraiche italiane, Renzo Gattegna. Napolitano ha poi parlato della condivisione di "ideali comuni come la lotta per la libertà e per il pieno riconoscimento dei diritti dei popoli, e in modo specifico del popolo ebraico". 
Per il presidente della Camera, Gianfranco Fini, rendere testimonianze della Shoah "non è solo il doveroso ricordo di nomi e storia", ma piuttosto "un presidio morale e civile affinché mai più accada che l'aberrante logica di un potere totalitario si abbatta sugli inermi, sugli innocenti, su interi popoli contro i quali decretare le discriminazioni più odiose per motivi di razza, di religione, di genere, di condizione sociale, in una folle progressione criminosa capace di raggiungere il genocidio".

Il Nobel per la pace Elie Wiesel. Nel suo intervento alla Camera Elie Wiesel  -  numero A7713 tatuato sul braccio ad Auschwitz  -  ha lanciato al mondo una domanda provocatoria, ma carica di speranza. "Volevano ad ogni costo uccidere l'ultimo ebreo sul pianeta. Oggi ci si potrebbe chiedere: perché la memoria, perché ricordare, perché infliggere un dolore tale?" Poi la risposta: "In fondo per i morti è tardi ma per i vivo no. Se non si può annullare il tormento, si può invece sperare, riflettere, prendere coscienza". Con una punta di amarezza, pensando che "neppure Auschwitz ha guarito il mondo dall'antisemitismo", ma anche con l'ottimismo di chi crede in una pace possibile tra israeliani e palestinesi.

Wiesel ha poi puntato il dito contro il governo di Teheran. "Ahmadinejad nega l'Olocausto e vuole distruggere Israele, che è uno Stato dell'Onu", ha detto il premio Nobel. "Andrebbe arrestato, portato all'Aja e accusato di crimini contro l'umanità". Rivolgendosi ai parlamentari e ai leader italiani, lo scrittore ha chiesto la firma di un disegno di legge che descriva l'attentato suicida come crimine contro l'umanità. "Questo non fermerebbe le mani degli assassini ma potrebbe fermare i complici", ha spiegato.

Le parole di Benedetto XVI.
 Quelli compiuti dalla Germania nazista - in particolare "l'annientamento pianificato degli Ebrei" - sono "crimini di inaudita efferatezza": orrori e tragedie frutto "di un cieco odio razziale e religioso", per i quali invocare l'intervento divino affinché "non si ripetano più". Così papa Benedetto XVI si è espresso a proposito della Shoah nel corso dell'udienza generale del mercoledì. "Sessantacinque anni fa, il 27 gennaio 1945 - ha aggiunto - venivano aperti i cancelli del campo di concentramento nazista della città polacca di Oswiecim, nota con il nome tedesco di Auschwitz, e vennero liberati i pochi superstiti. Tale evento e le testimonianze dei sopravvissuti - ha proseguito - rivelarono al mondo l'orrore di crimini di inaudita efferatezza, commessi nei campi di sterminio creati dalla Germania nazista".
Scritte antisemite a Roma. C'è indignazione per le scritte antisemite comparse la notte scorsa a Roma. Con delle bombolette di spray nero alcuni estremisti di destra hanno imbrattato i muri di via Tasso e via Cavour con scritte del tipo "Olocausto propaganda sionista" e "27/01: ho perso la memoria", il tutto accompagnato da croci celtiche. A compiere il gesto, ha spiegato Giuseppe Mogavero, segretario del Museo della Liberazione di via Tasso, sarebbero state quattro persone incappucciate, riprese tra la mezzanotte e l'una da una telecamera i cui filmati sono ora al vaglio della Digos. Il sindaco di Roma Gianni Alemanno (citato anche lui in una scritta: "Alemanno verme sionista") ha parlato di "un atto gravissimo, un'offesa senza pari al rispetto della persona umana".

La scorsa notte un altro grave episodio di antisemitismo si è verificato a Strasburgo, nel quartiere di Cronenbourg, dove nel cimitero ebraico sono state profanate diciotto tombe. Sulle lapidi sono state trovate delle svastiche e la scritta "Juden raus".
La cerimonia ad Auschwitz. E' qui, nell'ex lager nazista, che si è ricordato il 65esimo anniversario dalla liberazione del campo di sterminio divenuto il simbolo più infame del genocidio. Alla cerimonia, imbiancata dalla neve, erano presenti alcuni sopravvissuti, degli ex soldati dell'Armata Rossa e diverse personalità politiche, fra cui il primo ministro israeliano, Benyamin Netanyahu. Visibilmente commosso, Netanyahu ha sottolineato come un terzo dei circa 23 mila "giusti" che sono ricordati al Memoriale dell'Olocausto Yad Vashem sono polacchi. "Dio vegli su questa terribile terra di Auschwitz e degli altri campi di sterminio", ha aggiunto il premier. 
Le accuse di Teheran. Anche nel Giorno della Memoria, parole durissime sono arrivate dall'Iran nei confronti di Israele. "Di certo verrà il giorno in cui le nazioni della regione saranno testimoni della distruzione del regime sionista", ha detto il leader supremo dell'Iran, l'ayatollah Ali Khamenei. "Il 'quando' di questa distruzione  -  ha aggiunto  -  dipenderà solo da come le nazioni islamiche affronteranno la questione".

E sono stati in molti oggi a criticare il regime di Teheran e a definirlo come "un pericolo per il futuro del mondo". "Occorre prendere molto sul serio le minacce pronunciate dal presidente iraniano", ha insistito il presidente del Congresso ebraico mondiale Ron Lauder, "e non fare come si fece con Hitler". Sulla stessa linea il presidente israeliano Shimon Peres, che da Berlino ha duramente criticato il governo di Teheran, esortando la comunità internazionale ad agire contro l'Iran. "Mai più - ha detto Peres - si potranno ignorare dittatori assetati di sangue che si nascondono dietro maschere demagogiche e pronunciano slogan omicidi".
(27 gennaio 2010)


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Netanyahu e Peres celebrano il giorno della memoria, con un occhio all’Iran

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Netanyahu e Peres celebrano il giorno della memoria, con un occhio all’Iran

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Siegrist, intervista al custode dell'Eiger

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BRESSANONE, Bolzano -- "Se vedo una bella montagna ne sono attratto, non importa dove si trovi, voglio solo andare a scalarla. Ognuna ha la sua bellezza. Può essere l'Eiger in Svizzera, dove ho passato momenti fantastici in parete, scalando leggero e veloce, o posti come l'Antartide, dove vedi splendidi paesaggi". Intervista a 360 gradi a Stephan Siegrist, l'alpinista di Interlaken considerato il "custode" dell'Eiger che ha scalato 26 volte, aprendo diverse vie nuove.

Lineamenti spigolosi, sguardo secco e fermo, ma che si scioglie alla prima domanda in un sorriso simpatico. Stephan Siegrist, nato a Meikirch nel 1972, guida alpina e residente ad Interlaken, è uno degli alpinisti svizzeri più forti che ci siano in circolazione. Lo abbiamo incontrato all'International Mountain Summit di Bressanone e abbiamo parlato del suo alpinismo, di scalate passate e di quelle future.

Siegrist infatti, è autore di numerose ascensioni sulle Alpi bernesi di casa, come in Patagonia e in Himalaya. Ma sicuramente la montagna che consoce meglio è l'Eiger, di cui viene chiamato il "custode". L'ha salito infatti, 26 volte, di cui una alla maniera degli scalatori del 1938 (nel 2002 insieme a Michal Pitelka, seguito dal vivo da una trasmissione della TV svizzera). Ha scalato numerose volte la parete nord con Ueli Steck, con il quale ha completato una delle scalate più veloci in cordata, impiegando nove ore e battendo di un’ora il record registrato trent'anni prima da Reinhold Messner e Peter Habeler. 

Sempre con Steck poi, Siegrist ha compiuto nel 2008 la prima ascensione di "Pacienca" (8a), la via di arrampicata sportiva più difficile sulla parete nord dell’Eiger. E nel 2009, dopo aver firmato la prima salita in libera di "Magic Mushroom", si è lanciato in base jump. 

Ma nel ricchissimo curriculum di Siegrist non spiccano solo scalate d'eccellenza sulle montagne di casa, ma anche in Antartide, Himalaya e Patagonia, dove nel 1999 ha salito in invernale la parete ovest del Cerro Torre. Tante le vie nuove aperte, tanti i film girati in parete, come l'ultimo "Lightning Strike", sull'Arwa Tower.

Ecco cosa ci ha raccontato di sé.

Valentina d'Angella





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Intervista a Reinhold Messner

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Reinhold Messner, la vita e l'alpinismo oltre gli Ottomila. Intervista di Erminio Ferrari ed Ellade Ossola.

«Vorrei essere ricordato come l’alpinista che ha fallito più di tutti sugli Ottomila». Ecco, se avete un’idea di Reinhold Messner ricalcata sull’immagine che ne hanno dato (complice lui stesso) giornali, libri e televisioni, cambiatela. Le parole che riempiono una sala spoglia di Castel Firmiano, dove ha sede il maggiore dei cinque musei fondati dall’alpinista altoatesino, sono quelle di un uomo di 65 anni, che è sì cresciuto sulle proprie certezze, ma che non ha mai esitato davanti ai fatti o agli incontri che gliele hanno fatte correggere. Ricordarlo come il primo salitore di tutte le quattordici cime di ottomila metri è davvero poca cosa. Prima che in Himalaya, la sua grandezza alpinistica aveva già fatto sensazione sulle Alpi e sulle Dolomiti; poi vennero le traversate dell’Antartide, della Groenlandia, quella in solitaria del Deserto del Gobi, il mandato di parlamentare europeo, l’avventura dei musei della montagna. Ma sono stati senza dubbio i giganti himalayani a dargli una fama che nessun alpinista aveva mai conosciuto, né forse avrà più. Cominciamo da qui, allora.


Come si portano l’onore e la responsabilità di essere la prima figura di alpinista universalmente nota?
«La notorietà non significa per forza qualità dell’alpinista. Ma è vero, sono una persona nota perché faccio attività anche al di fuori dell’alpinismo. Sono una figura che attira interesse; ma a me interessa soprattutto poter fare la mia vita, senza volere essere un leader, né compiacere i desideri di qualcuno o di un pubblico. Non voglio essere seguito».


Dunque non ha mai sentito questa responsabilità?
«No. Non abbiamo responsabilità nei confronti di chi ci prende a modello. Non sono responsabile di chi vorrebbe ma non sa fare».


L’alpinista è spesso dipinto come un uomo libero o piuttosto come un individualista. Non ha mai sentito limitata la sua libertà da questa figura?
«La mia libertà di alpinista include la responsabilità di ciò che faccio nei confronti di chi mi è vicino, figli, moglie, genitori. È chiaro che chi svolge un’attività pericolosa porta con sé questa responsabilità e solo chi se l’assume può veramente dirsi libero alpinista. L’alpinismo si pratica in un mondo arcaico dove non ci sono leggi, ma proprio per questo non c’è quasi rimedio agli errori. È una vita anarchica che chiede di assumersi la responsabilità di ciò che si fa. In ogni salita difficile va contemplata la possibilità di morire, e in questo senso l’alpinismo è egoista».


Ma lei non si è mai sentito limitato in quanto uomo dall’essere un personaggio?
«Sono una persona pubblica e questo è un onere; ma lo accetto, perché so che non mi condiziona nelle scelte. Non mi curo di chi mi applaude o mi fischia. Voglio essere giudicato sul palco come oratore; sul piano letterario se scrivo un libro, su quello artistico se giro un film. Ma non come un vitello a tre teste perché ho fatto i 14 Ottomila o l’Everest o queste cose qui».


Quando ha portato a termine l’ultimo Ottomila lei ha scritto: sono contento di averlo fatto, ma non ne sono fiero. Può spiegare perché?
«Sono stato uno dei primi a dare un taglio all’alpinismo eroico, nato nei primi decenni del secolo in Italia e Germania – non a caso culle del fascismo europeo – sopravvissuto anche dopo la seconda guerra mondiale e in parte vivo ancora oggi. E sono stato il primo a dire: io non porto bandiere in vetta, la mia bandiera è il mio fazzoletto; venendo per questo fischiato e insultato. Non condivido neppure la filosofia secondo cui un alpinista che muore in montagna è in qualche sorta un eroe. No: se l’alpinista muore è solo una disgrazia. E la sola cosa da fare è prendersi cura di chi ha lasciato».


Sempre a proposito delle sue salite agli Ottomila, lei ha scritto di aver a un certo punto perso le motivazioni per continuare la collezione. Che cosa era successo?
«Mi mancavano le sfide e le possibilità. Io, per ragioni anagrafiche, sono entrato nell’alpinismo d’alta quota alla fine della fase della cosiddetta conquista. La generazione mia e di Bonington, ha così tentato di salire quelle stesse montagne lungo vie difficili o pareti inviolate. La nostra meta era sì di raggiungere la vetta più alta, ma con il minimo equipaggiamento e per una via possibilmente difficile. È un tipo di alpinismo che ho sviluppato passo dopo passo. All’inizio (nel 1970 al Nanga Parbat) scelsi una via difficile con una spedizione classica; poi (nel 1975 al Gasherbrum I) venne la via difficile in una cordata a due (con Peter Habeler ndr); nel 1978 la solitaria al NangaParbat e poi (nello stesso anno, con Peter Habeler) l’Everest senza ossigeno; a cui seguì la solitaria sulla stessa montagna nel 1980. Quattro anni dopo la traversata dei due Gasherbrum (con Hans Kammerlander ndr). Ormai non restava che la collezione degli Ottomila, ma non era il mio obiettivo iniziale. Certo, giunto a quel punto, anche sulla spinta dei giovani alpinisti che mi seguivano nelle salite e facevano conto su di me, dopo aver fatto tre Ottomila in un anno ho pensato che tanto valeva finirli tutti».


La crisi arrivò sull’ultimo, il Lhotse, nel 1986 fu la paura di vedere l’obiettivo così vicino, o si trattò d’altro?
«Finendo gli Ottomila era chiaro che mi liberavo di un peso che io stesso mi ero caricato. Ma avevo già altre idee, per la verità. Sul Lhotse, sulla espostissima cresta finale soffiava un vento fortissimo che rischiava di buttarci giù.Ma Kammerlander, che era con me, ha insistito: andiamo avanti, e così abbiamo fatto. Fu una liberazione, ma anche il momento della crisi: per sedici anni non avevo fatto altro (occupandomi di tutto dalla logistica alla ricerca dei finanziamenti). Ora i miei compagni non condividevano i progetti futuri di traversate ai Poli, e non ho trovato nessuno disposto a seguirmi; forse non capivano la dimensione di quella nuova avventura, o la temevano. Ho dovuto imparare da zero e per fortuna ho trovato specialisti in quel campo, scoprendo compagni straordinari».


È un fatto di esposizione mediatica? Forse le grandi montagne sono più note dei Poli?
«A lungo è stato il contrario. La vera competizione era quella per i Poli, il cui prestigio era molto maggiore di quello degli Ottomila. È cambiato tutto negli anni 50: gli inglesi avevano investito soldi e perso uomini nella corsa ai Poli, ma furono battuti a Nord e a Sud. Allora si volsero all’Everest, inventando il “terzo polo”. Ma già dopo la conquista dell’Everest, gli Ottomila persero gran parte del loro fascino. In seguito, però, dato che ogni nazione importante nel campo alpinistico voleva il proprio Ottomila, la loro notorietà crebbe e dura ancora oggi. Putroppo la gente non ha ancora capito quale è il valore delle grandi traversate dell’Artico o dell’Antartide, perché sono lontane, e chi ne scrive la fa in maniera troppo tecnica o fredda, senza parlare delle emozioni, senza avere in coraggio di mettersi a nudo».


Il business può condizionare la scelta degli obiettivi alpinistici, o forzare gli alpinisti a osare più del lecito?
«Il lecito non esiste. Ognuno può prendersi tutti i rischi che vuole e io non mi farò mai giudice delle scelte altrui. Detto questo, è vero che la sponsorizzazione spinge l’alpinismo di punta a tentare certe realizzazioni. Naturalmente chi paga ha interesse a un ritorno di immagine, ma è l’alpinista che deve saper scegliere i propri obiettivi e resistere alle eventuali pressioni».


Lei ha anche conosciuto l’esperienza del fallimento. Come se ne esce, che cosa si impara?
«Non c’è alpinista di punta che non abbia conosciuto il fallimento. Si impara attraverso il fallimento, non attraverso ciò che riteniamo essere vittorie. Per la propria consapevolezza è importante conoscere i propri limiti, e li si conosce soltanto sperimentandoli. Io ho fallito tredici ottomila. Vorrei essere ricordato come l’alpinista che ha fallito più volte sugli Ottomila. Io ho fatto 18 volte la salita di un Ottomila, perché mi interessavano le salite non i record. Se non avessi fallito (come mi è capitato sul Dhaulagiri, sul Makalu e sul Lhotse) sarei già morto. Ho dimostrato di essere coraggioso nelle sfide, ma anche nel ritirarmi».


Nel suo La mia vita al limite, lei scrive che “quando sei appeso là in alto saresti disposto a qualsiasi cosa pur di salvare l’altro”. Le cronache alpinistiche sono tuttavia colme di episodi di grettezza o meschinità costate anche la vita ad alcuni alpinisti. L’uomo regredisce o si mostra per ciò che è nelle esperienze al limite?
«Finché l’alpinista sale con uno o due amici, farà di tutto per salvare chi ha con sé. Ma se si è in mille su una via, questo atteggiamento lo separerà dai mille altri. È la differenza tra una cultura montana che obbliga, per le condizioni ambientali difficili o estreme, alla condivisione e alla solidarietà; e una metropolitana, dove gli individui vivono soli, pur ammassati. Quante volte leggiamo del ritrovamento di persone morte nelle proprie case senza che nessuno se ne fosse accorto? Chi, incrociando qualcuno sul marciapiede, si chiede se ha bisogno? In montagna avviene ormai che la cultura urbana, competitiva e individualista è entrata condizionandolo, nell’alpinismo. Nel 2003 ero al campo base dell’Everest e per andare dalla prima all’ultima tenda ci volevano due ore. Ho chiesto di due amici che sapevo essere lì e nessuno sapeva chi fossero, nonostante salissero tutti sulla stessa via».


Nella sua prima salita a un Ottomila, il Nanga Parbat nel 1970, lei ha perso suo fratello Günther. Quanto e come questo episodio ha mutato il suo rapporto con l’alpinismo?
«È stata un’esperienza fondamentale nella mia vita e mi ha fatto considerare del tutto morta la retorica sul cameratismo in montagna. Sapevo, salendo alla cima, che stavamo mettendoci su un cammino di rischio assoluto. Poi, nella discesa non c’è più stata scelta. Per i miei genitori è stato un colpo durissimo; per me, in più, c’era lo sgomento di non essere creduto. Il capospedizione mi aveva dato per morto e quando tornai dovette darsi e dare una spiegazione. Il mio ritorno destabilizzò i suoi piani perché si riteneva impossibile che potessimo scendere in quelle condizioni dal Nanga Parbat. Poi vennero le accuse, e solo il ritrovamento dei resti di Gunther, dopo 35 anni, ha reso la verità della storia, nonostante le speculazioni indegne costruite a mio danno».


Yuri Gagarin, dopo il primo volo spaziale disse di non aver visto dio in cielo. Lei che cosa ha visto sulle cime più alte della terra?
«Chi pensa che l’Everest sia più vicino a Dio sbaglia. Se pensiamo all’infinito non c’è nessuna differenza tra l’Everest e noi qui a questa quota modesta.L’Aldilà, o dio se si vuole chiamare così, è fuori dalla nostra portata. Rispetto l’Aldilà ma non ho il diritto né il coraggio per descriverlo, è fuori della nostra misura».


La vera avventura, scrive lei, è quella dove non è garantito il ritorno. Quale è allora il valore della vita per Reinhold Messner?
«Non è che la vita valga meno se la si mette in gioco o ci si espone al rischio di perderla. Andare in zone pericolose è un modo per vivere più intensamente. Del resto oggi le metropoli sono molto più pericolose della cima dell’Everest. Abbiamo impiegato migliaia di anni per metterci al sicuro, ma il sentimento di insicurezza non fa che crescere».


Che valutazione dà della sua esperienza di parlamentare europeo?
«È stata comunque positiva, benché mi sia reso conto che non faceva per me. Ho imparato una cosa importantissima: che l’Europa è necessaria più che mai. È sbagliato, al contrario, fare politica in Europa per difendere gli interessi locali. L’Europa è all’avanguardia nella politica ecologica, sociale e della pace. È la carta che possiamo giocare a favore di tutto il mondo».


Ancora in La mia vita al limite, lei scrive “la felicità non mi ha mai creato problemi”. Un’espressione bellissima e oscura. La vuole spiegare?
«La felicità raggiunta è una cosa noiosa. Anche il sapere e l’avere lo sono. È molto più interessante arrivarci; progettare, cercarla, la felicità».


Lei si lasciò alle spalle un mondo coeso, con un forte senso di comunità e valori saldi, che però avvertiva come chiuso e reazionario. Prese la strada del mondo e della montagna come pratica sportiva. I suoi musei sono oggi un ritorno, o la chiusura del cerchio?
«Sono stato fortunato a uscire da questa terra che era e resta molto chiusa. Sono tornato a portarvi la mia idea di pace, e vi propongo vie di convivenza praticabili. Io sono stato il primo a dire: noi sudtirolesi non siamo italiani né austriaci, né tedeschi, ma sudtirolesi e europei. Se ragioneremo così saremo d’esempio per le altre regioni d’Europa. Una volta dire queste cose bastava per essere espulsi dalla comunità. Solo ora, lentamente, la mia strada, che è quella di Alex Langer, si va confermando quella più giusta. Ho riattivato tre masi di montagna dimostrando che si può animare un’economia locale autentica, non finanziata da fuori, ma sufficiente e esemplare. Questo intendo per politica ».


Intervista di Erminio Ferrari ed Ellade Ossola - 12/09/2009


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Le stagioni dell'Ice climbing

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 Marlier e le molte stagioni dell'arrampicata su ghiaccio tra l'ice degli inizi, il dry tooling e un'idea di futuro.

L’ennesimo inverno, le solite domande riecheggiano nella testa: ghiaccerà?... dove ghiaccerà? Passi un sacco di tempo, nei vari forum e siti internet, cercando notizie su cosa sia stato salito. E poi scatta la solita corsa a fare l’ennesima coda o a sobbarcarti alzatacce che ti permettano alle prime luci del giorno di essere la prima cordata. Quante volte mi è successo in questi 25 anni di cascate! Sempre la stessa musica. Certo è che nel 1985 c’erano molte più possibilità di oggi, l’attività su cascata era appena nata, e un timido movimento si stava organizzando. Erano per lo più gruppi di straordinari “avventurieri” che si lanciavano in “attacchi suicidi”, armati di attrezzature ben lontane dai moderni standard. Per esempio le piccozze avevano rigorosamente i manici diritti. Ed erano dei veri e propri strumenti “devasta nocche”: porto ancora i segni e i ricordi delle legnate che mi sono dato; dio che male...


Allora si scalava con la Chacal e il Barracuda, un cordino al puntale permetteva di appendersi agli attrezzi e chiodare. I chiodi erano buoni per stappare bottiglie... erano dei cavatappi e il famoso Snarg doveva essere battuto e poi, una volta infisso, con un solo mezzo giro avrebbe dovuto tenere una caduta! La disciplina però cominciò ad interessare le aziende produttrici che cominciarono a investire in questo mondo, ed inevitabilmente nacquero piccozze e ramponi sempre più performanti. Ma fino ai primi anni '90 le piccozze continuarono a mantenere sempre la forma originale, con il manico dritto, così le nocche rimanevano sempre gonfie… I chiodi ebbero un un miglioramento significativo: dai “cavatappi” si passò ai chiodi al titanio di fabbricazione russa. Erano leggeri, si riusciva ad avvitarli e si recuperavano. Però i test di caduta restavano rabbrividenti… ma non c’era di meglio e si usarono molto.


Eppure anche con quell’attrezzatura da “climberflinston” si passò per quella che risultò essere una tappa fondamentale dell'allora Piolet traction... la mitica Repentance Super. Una colata che rappresentava l’insuperabile e l’impossibile: chi fosse salito in cima a quella linea avrebbe raggiunto quello che tutti i ghiacciatori di allora sognavano. In realtà i primi salitori (Giancarlo Grassi, François Damilano e Fulvio Conta nel 1989 ndr) senza rendersene conto aprirono non solo una bellissima cascata, ma anche un modo diverso di approcciarsi all'arrampicata su ghiaccio. Quella salita rappresentò l’inizio di una corrente nuova, quella che guardava più in là di ciò che allora si poteva concepire e di ciò che si credeva possibile. Era l’inizio di una nuova visione, era “vedere” dove tanti avevano solo guardato. Inevitabilmente fu l'inizo di un nuovo modo di scalare, per stile e concetto. In quegli anni si salirono linee fantastiche, dure, pericolose, ma nessuna come Repentance ha rappresentato un passo fondamentale per l’ice climbing italiano e non solo, tanto da rimanere l’assoluto riferimento e “la salita test” da oramai 20 anni.


Erano gli anni '89, '90, sulla spinta di alcuni giovani climber, i cordini per la chiodatura non si usavano più e lo stile stava assumendo un connotato chiaro. Al posto del “pianto le piccozze e quando non ne ho più mi appendo”, si scalava, si cercava di essere più estetici, di rompere meno ghiaccio possibile e... si chiodava poco. Non perché non ce ne fosse l’esigenza, ma perché chiodare con quelle “cose” era troppo faticoso e così si andava oltre. Intanto le attrezzature subirono un’altra spinta in avanti, difficoltà sempre più elevate e strutture decisamente più fragili necessitavano di materiale diverso da quello in commercio. Inoltre questo stile di scalata, che non prevedeva più l’uso dei cordini per la chiodatura, impose o meglio sviluppò quella che fu la vera rivoluzione: il chiodo filettato.


Anche se lontani parenti di quelli attuali, questi chiodi permettevano di scalare ”in libera” senza appendendersi ai cordini. Così tenendosi alla piccozza con una mano con l’altra si riusciva a chiodare. Semplicemente fantastico! Finalmente ci si poteva proteggere senza alterare l’armonia della scalata. Eri obbligato ad assoggettarti alla conformazione del ghiaccio, metro dopo metro si cercavano le sue zone più deboli, non era più solo salire, era interpretare, leggere, andare oltre al conosciuto… In più, grazie al chiodo e alla “sicurezza che forniva”, si sdrammatizzò l’alone eroico del passato, e questo avvicinò molti praticanti alla disciplina. Con il chiodo filettato, nei primi anni '90, tutte le attrezzature ebbero una impennata tecnica e anche i ramponi e le piccozze subirono le prime importanti modifiche. Ma il vero cambiamento iniziò con l’avvento delle prime gare su strutture artificiali.


A Courchevel, nel '90, si disputò la prima gara su ghiaccio su struttura artificiale. A Cortina, nel 1999, si fece la prima gara internazionale di ice boulder, un evento che resterà nella storia. E poi arrivò anche la Coppa del mondo. La stagione delle gare, che oggi “resistono” con la sempre magnifica tappa di Daone insieme a quelle di Sass Fee, Busteni e Kirov, ha avuto l’assoluto merito di interessare le aziende. Così, anche per soddisfare le esigenze degli atleti, i materiali cambiano forma: le piccozze diventano sempre più arcuate e ai ramponi si aggiungono gli speroni. Di conseguenza i materiali diventano sempre più tecnici e performanti, il tutto a vantaggio della sicurezza dei praticanti che nell’arco di alcuni anni si sono accresciuti raggiungendo numeri molto interessanti. Intanto però in molte gare (ma non solo nelle gare) il ghiaccio cominciò a latitare. Un fenomeno che non si riesce a comprendere se non si fa un piccolo passo indietro.


Nel 1995 sulla copertina di rivista americana era apparso uno scalatore appeso a tentacoli di ghiaccio sospesi nel vuoto… è Octopussy, ovvero è l’avvento del drytooling. L’ice climbing per alzare le difficoltà in quegli anni prossimi al 2000 avrebbe dovuto spingersi su strutture troppo pericolose, dove gli standard di sicurezza non sarebbero stati sufficienti. Inevitabilmente un chiodo messo bene, e successivamente una linea di spit, risolvevano il problema e rendevano fattibili anche le strutture più impensabili o troppo pericolose, e anche qui il ghiaccio era sempre meno e le difficoltà si concentravano nelle parti rocciose.


Così dapprima Ice climbing e drytooling vengono mischiati e confusi in un'unica attività. Poi, piano piano e per diversi anni, le cascate di ghiaccio sembrano tornare nell’oblio per lasciar posto al drytooling con le sue evoluzioni decisamente spettacolari. Tanto più che il dry prende subito piede nell’alto livello tanto che sono molti i big che si ritrovano, picozze alla mano, a salire impressionanti strapiombi di roccia. E, in men che non si dica, le fantastiche immagini di queste salite rubano le copertine di tutte le riviste specializzate... Insomma sembra sia finalmente arrivata nuova linfa.


Intanto dalle piccozze sono definitivamente scomparse le dragonne e l’attrezzatura si conforma alle necessità. Con il drytooling le piccozze devono assolvere ad un diverso utilizzo: l’aggancio è diventato il padrone assoluto della tecnica di scalata. Così le forme e le impugnature cambiano, non sono più concepite per essere piantate ma per essere agganciate, nella maggior parte dei casi su roccia e resina… E le cascate? Nonostante ciò che molti pensavano e prevedevano il praticante medio continua ad arrampicare sulle cascate. Anzi nascono anche i primi Icepark dove il dry quasi non esiste.


Tutto inizia nel 1996 al meeting in Colorado… Bastano un canyon e un albergatore che appronta dei bocchettoni su una linea d’acqua ed ecco nascere l’Icepark di Ouray in Colorado.Tutto perfetto. Soste, calate, tutto organizzato: puoi scalare in moulinette su più di 50 linee… Anche in Italia, ma solo nei primi anni del  2000 e grazie all’intrapendenza di alcuni appassionati, nasce il primo park Italiano. La Valvaraita già all’avanguardia nel 1988 per aver organizzato il primo meeting per ghiacciatori, ne è il fautore. Il Castello oggi raduna un incredibile numero di praticanti, perché si può scalare posizionando la corda in moulinette passando da un comodo sentiero. Un modo diverso di interpretare la disciplina, soprattutto molto “popolare” perché dà la possibilità di provare senza corere troppi rischi.


I materiali oggi sono efficacissimi, iper leggeri, tecnici. Ci sono ramponi strabilianti, chiodi iper veloci. Nasceranno sicuramente nel prossimo periodo attrezzi, scarpe e abbigliamento specifico ancora più performante. Perché i numeri sono importanti e le aziende del settore vorranno sicuramente investire. Anche perché basta girare per montagne per vedere le attrezzature da cascata usate su tutti i terreni misti in quota. Quello che però dovrà cambiare è il modo di salire, ne sono assolutamente convinto. Il livello medio in questi ultimi anni e sceso drasticamente. Abbiamo attrezzi iper tecnologici eppure si continua a tremare nell’affrontare quello che 20 anni fa era normale. Questo significa che il movimento culturale che stava dietro a tutto si è fermato? Che eravamo extratterrestri? No! Noi cercavamo la nostra identità e cercavamo di seguire quel percorso che il maestro Grassi aveva indicato. Cercavamo un’evoluzione che oggi i giovani sembrano non cercare, lo dimostra il fatto che la mia generazione è ancora sulla breccia. E siamo tutti 40enni suonati!


Una cosa per me è sicura. A distanza di 20 anni dalla prima salita non c'è stato nulla che ha abbia rappresentato ciò che “Repentance” ha significato per l'ice climbing. Certo arriveranno altre “invenzioni” ma, passata la moda del momento, il ritorno al “ghiaccio” sarà sempre inevitabile. Perché la maggior parte dei climber non ha mai smesso di scalare e di sognare le cascate di ghiaccio, le pareti nord e le goulotte.


Ezio Marlier















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Intervista a Simon Anthamatten

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Ellade Ossola intervista l'alpinista e guida alpina svizzero Simon Anthamatten protagonista negli ultimi anni di importanti salite ma anche di scelte che hanno le loro radici nella volontà di mantenere il proprio alpinismo “indipendente”.

«Se decidessi di puntare ancora di più sulla mia immagine, sul marketing potrei già vivere delle mie spedizioni, ma non è ciò che voglio. Sono nato e vivo ancora oggi a Zermatt e mi sento soprattutto una guida alpina. Ho un profondo legame con questa professione che esercito regolarmente». Questo è Simon Anthamatten.

Ventisei anni, cresciuto all’ombra del Cervino, e proiettato sulle maggiori montagne del mondo da una passione divorante e da un talento riconosciuto a livello mondiale. Con il fratello Samuel o con altri compagni (tra cui il fortissimo Ueli Steck) ha compiuto salite  il cui valore ha presto fatto il giro del mondo alpinistico: ricorderemo solo l’ultima, lungo la parete sud dello 
Jasemba (7.350 metri), con il fratello e Michael Lerjen; o la salita alla parete nord del Tengkampoche (6.500 metri, anch’essa in Nepal), con Steck, che gli è valsa il Piolet d’or 2009, una specie di Premio Oscar dell’alpinismo; o la serie di salite durissime nel gruppo del Fitz Roy, in Patagonia.

Ma ricorderemo anche un aspetto del suo alpinismo meno scontato in un panorama non sempre edificante: nel 2008, ancora con Steck abbandonò la salita dell’Annapurna 8.091 metri), per tentare di soccorrere due alpinisti bloccati sulla stessa montagna (tentativo riconosciuto con il Prix courage); e poche settimane fa, fresco dell’impresa sullo Jasemba, è tornato precipitosamente in Himalaya per partecipare al salvataggio (non riuscito) del fortissimo 
Thomas Humar, caduto durante una salita solitaria sulla parete sud del Langfang Lirung (7.300 metri).

Ecco, a uno così si può ben credere quando dice che «gli sponsor sono fondamentali, ma è  anche importante riuscire a mantenere una certa indipendenza. Quando sei in parete devi prendere delle decisioni dalle quali dipende la tua sicurezza, devi essere obiettivo senza subire pressioni, ad esempio dagli sponsor. Nel mio caso non ho nessun problema in questo senso perché ho un rapporto eccellente con i miei sponsor. Voglio rimanere indipendente ed è per questo che sono diventato una guida alpina. Quando ho voglia di lavorare, lavoro, quando voglio riposarmi lo faccio ... è importante».





Il Cervino è un simbolo universalmente noto, che cosa rappresenta questa montagna per un alpinista che vive ai suoi piedi?
«Il Cervino è per me sinomino di casa, di luogo d’origine. Sono nato qui ed ho un profondo rispetto per questa montagna. L’ho già scalato 85 volte, è una montagna straordinaria con vie facili, altre difficili. Ce ne sono per tutti i gusti. Per rispetto intendo dire che anche se vivo ai piedi del Cervino, non lo salgo ogni giorno né a ogni costo ma solo quando le condizioni sono perfette. L’ascensione del Cervino non è una passeggiata, bisogna rispettarlo».


Come è nata la salita sprint del Cervino in solo due ore e 33 minuti (ritorno compreso), di qualche anno fa?
«È stata un’avventura tra amici: Michi Lerjen, che ha partecipato anche alla spedizione allo Jasemba ed io. Da tre giorni eravamo chiusi in capanna a causa del vento. Fuori il tempo era stupendo ma purtroppo vi era un vento pazzesco che ci impediva di salire con i nostri clienti sul Cervino. Dopo due giorni in capanna, la sera abbiamo fatto festa, e il giorno successivoci siamo svegliati alle quattro e abbiamo dovuto comunicare ai nostri clienti che le condizioni meteo non era migliorate e che quindi era impossibile salire. Alle nove ho detto a Michi “forza andiamo solo io e te, ci proviamo anche se c’è vento”. Così siamo partiti e ci siamo subito resi conto che stavano avanzando molto velocemente. Non c’era nessuno sulla parete a causa del vento e quindi la nostra salita non era rallentata da altri alpinisti. Ma devo dire che il tutto è stato abbastanza casuale».


È un caso che Simon Anthamatten sia titolare della salita più veloce al Cervino, e che Ueli Steck detenga invece la salita più veloce alla nord dell’Eiger?
«Il nonno di Michi Lerjen deteneva il vecchio record, che durava da 30 anni. Quando abbiamo iniziato la nostra salita abbiamo pensato a questo, anche perché il nonno di Michi ci prendeva in giro quando gli raccontavamo le nostre esperienze in montagna; ci teneva insomma a sottolineare come il record sul Cervino appartenesse ancora a lui. Quanto al resto, noi siamo vallesani ed abbiamo stabilito il record sul Cervino, Ueli Steck è bernese ed ha fatto la stessa cosa sull’Eiger, la “sua” montagna. Credo che sia un fatto abbastanza normale nell’evoluzione dell’alpinismo. C’è una montagna che conosci meglio di altre, inizi quasi per gioco, fai una scommessa e poi ti rendi conto che sei stato velocissimo e che hai stabilito un record. Non ci vuole molta dietrologia, noi ci siamo riusciti al Cervino e Ueli lo ha fatto sull’Eiger».


Ueli Steck è stato il compagno di molte spedizioni; tuo fratello Samuel ti ha accompagnato in altri progetti. Come muta il rapporto quando all’altro capo della corda c’è un fratello di sangue?
«Mio fratello ed io siamo molto simili, ci conosciamo alla perfezione, spesso non abbiamo bisogno di parlare; e questo è un vantaggio, una condizione fondamentale quando sei in parete. Con Ueli  la situazione è simile, ma abbiamo dovuto lavorare per raggiungere questo feeling. Quando abbiamo deciso di partire per la prima spedizione comune ci siamo allenati per quattro settimane proprio per imparare a conoscerci, per cercare questi meccanismi naturali. Con il tuo compagno di cordata tutto deve funzionare senza intoppi, non vi è nessuna altra possibilità  altrimenti il rischio di incidente è troppo alto.
Quando mio fratello affronta in parete un passaggio pericoloso mi preoccupo di più: siamo fratelli di sangue. Quando la stessa situazione si presenta con Ueli Steck mi dico “Ueli sa cosa deve fare e se dovesse cadere sono cavoli suoi ...”. Non fraintendere: non dico che quando scali una montagna con un amico te ne freghi e quando lo fai con tuo fratello ti impegni. No, non è così… cerchi di evitare la caduta in ogni caso, però è chiaro che quando sono con mio fratello sono un po’ più preoccupato ma credo sia una reazione normale». 


Quando sei in parete con tuo fratello ti senti più sicuro. Significa allora che osi di più?
«È esattamente il contrario. Quando sono con mio fratello mi dico sempre: “Per favore non cadere, fai attenzione”; quando sono con Ueli invece mi ripeto che Ueli sa come deve comportarsi e ha la situazione in mano. Quando sono in montagna con mio fratello vivo sensazioni contrastanti perché temo che possa accadere un incidente. Puoi avere paura anche quando ti trovi in parete con un amico, ma è minore».


Come vive vostra madre la condizione di avere tre figli fuori dal comune: tu e Samuel alpinisti estremi, e Martin uno degli atleti più forti a livello mondiale nello scialpinismo?
«Abbiamo anche una sorellina più giovane che è “normale”... È chiaro che per nostra madre non è la cosa più semplice gestire tre figli sempre in giro per il mondo; ma credo che il tutto fosse molto più difficile da accettare in passato, all’inizio delle nostre avventure. Io ho completato la formazione di guida alpina, Samuel lo sta facendo, e anche lei ha capito che ci prepariamo in modo professionale, che non improvvisiamo nulla. È altrettanto chiaro che quando partiamo per due mesi in Nepal per scalare montagne che nessuno ha mai salito, lei si preoccupa. Ma abbiamo un ottimo rapporto, parliamo molto e credo che sia fondamentale. Nostra madre ha capito che il rischio estremo non ci interessa, che anche noi vogliamo tornare a casa sani e salvi».


Il rischio estremo non vi interessa, ma allora dove corre la distinzione tra “rischio accettabile” e “rischio pericoloso”?
«Penso che in montagna siano due i fattori importanti: bisogna innanzitutto essere realisti. Quando sono in parete non penso alla mia famiglia, alla mia compagna, ai miei amici: penso alla montagna e a ciò che sto facendo in quel momento e basta. Devo calcolare il rischio, decidere cosa/come fare, pensare al compagno di cordata, alla meteo. Devo occuparmi di ogni minimo dettaglio, non posso lasciare nulla al caso. Il secondo fattore è la pancia: se il mattino mi alzo e non ho buone sensazioni, è bene che lasci perdere. Se uno di questi due fattori suggerisce di fermarsi bisogna avere il coraggio di rinunciare. Io, perlomeno, faccio così. Sono talvolta decisioni difficili ma necessarie, che l’esperienza maturata in parete aiuta a prendere».


Ulrich Inderbinen è stato una figura storica per l’alpinismo vallesano, fino alla sua morte, nel 2004, a 104 anni. Che cosa ha rappresentato per la nuove generazioni di guide alpine di Zermatt?
«Tutti a Zermatt conoscevano Ulrich Inderbinen. Morire a 104 anni è naturalmente l’obiettivo di ogni alpinista... si dice sempre che sarebbe bello se tutti gli alpinisti potessero morire nel proprio letto ma non è sempre così. A Zermatt ci sono altre guide molto anziane; per noi giovani sono persone importanti, perché ogni tanto ci fanno tornare con i piedi per terra. Si congratulano con noi per gli exploit alpinistici, ma poi ci pregano sempre di fare attenzione, di non rischiare troppo, di rispettare sempre la montagna. È importante che ognuno possa far passare le sue idee anche se magari sono differenti dalle nostre. In ogni caso personalmente ho un profondo rispetto per le guide più anziane».


Dici di voler proseguire la tua professione di guida alpina parallelamente a quella di alpinista estremo. Ma un’altra attività per te molto importante è il soccorso in montagna. Recentemente hai preso parte al tentativo si salvataggio di Thomas Humar, in Himalaya; e nel 2008 hai ricevuto con Steck il Prix Courage per un altro tentativo di salvataggio dell’alpinista basco Inaki Ochoa - purtroppo vano - sull’Annapurna. È una dimensione anche questa del tuo alpinismo?
«Tre anni fa ho completato la mia formazioni di guida alpina, e un anno fa quella di specialista del soccorso in montagna. È una attività che mi interessa molto, pensando anche al mio futuro. Quando non avrò più la forza per affrontare vie difficili, lavorerò molto più come guida alpina e mi occuperò di socccorso alpino. È incredibile quante cose puoi imparare quando soccorri un alpinista in difficoltà. Ogni incidente mostra che si è sbagliato qualcosa. Forse si è rischiato troppo, forse c’è stato un altro problema. È un mestiere duro, che ti ricorda ancora una volta come la montagna non sia un parco giochi, ma un terreno che richiede capacità e serietà nell’affrontarlo».


Intervista di Ellade Ossola


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Siamo mica qui per divertirci!

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immagine genericaGradi che cambiano a seconda del meteo o del pranzo più o meno pesante che si è consumato. Gente che parte per un tiro di 15 metri, già attrezzato, con decine di rinvii attaccati all'imbrago. O improvvisate tecniche "high tech" per legarsi in parete, come potete vedere a fianco. E' una risata unica il libro di Comix di Claudio Getto, in arte "Caio", che racconta il mondo dell'arrampicata con irresistibili scenette fra atteggiamenti, manie e tic in cui è impossibile non ritrovarsi.
"Siamo mica qui per divertirci!". Ecco il titolo di questo esilarante album di vignette pubblicato nel 2008 ed edito in proprio dall'autore. Quasi cento pagine di risate, tutte a colori e in formato 24 x 16,5 centimetri, nelle quali i climber vengono messi a nudo con pungente ironia.

"Il titolo trae spunto da una espressione che circola da anni - spiega Caio - e che ben riassume la tendenza a prendersi un po' troppo sul serio. Tic, nevrosi, isterismi, usi, costumi, intolleranze, atteggiamenti e manie della "tribù verticale" vengono smascherati e tradotti in Comix per offrirli al pubblico con un sorriso".
   
Getto, da sempre appassionato di arrampicata, ha lavorato per alcune delle più celebri agenzie pubblicitarie italiane come la Armando Testa,  poi è stato direttore creativo della Fila e ora fa il vignettista di professione. Il suo libro è in vendita in diverse librerie d'Italia, il cui elenco è disponibile sul sito di Caio Comix. Il sito offre anche la possibilità di ordinarlo online e riceverlo comodamente a casa propria. Ma soprattutto, offre una decina di anteprime delle vignette contenute nel libro: andate subito a visitarlo, se volete regalare un po' di risate al vostro pomeriggio!
Sara Sottocornola
Titolo: Siamo mica qui per divertirci!
Autore: Caio
Edito: in proprio
Pagine: 96
Prezzo: € 15,00 in libreria. € 16,50 via Internet, compresi imballo e spedizione.


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