E’ ITALO ZANDONELLA CALLEGHER IL VINCITORE DEL PREMIO LETTERARIO NAZIONALE DI NARRATIVA “ALPINI SEMPRE”

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Il Premio Letterario Nazionale di Narrativa “Alpini sempre”, verrà consegnato domenica 29 novembre 2009 (a Ponzone-Acqui Terme), ad Italo Zandonella Callegher, autore de La valanga di Selvapiana (Corbaccio).
Il riconoscimento, che Italo Zandonella Callegher riceverà dalle mani del Presidente Nazionale dell’ANA Corrado Perona, è stato conferito per le seguenti motivazioni:
E’, questa, una storia a suo modo epica di guerra, di alpini e di alpinismo, sullo sfondo di un paesaggio tanto infido quanto splendido nella sua altera imponenza, ai limiti dell’accessibilità. Nell’inverno 1915-1916, tra le torri e le guglie del gruppo dolomitico del Popèra, gli alpini Mascabroni, al prezzo di sforzi sovrumani e di inenarrabili fatiche, raggiungono la Cima Undici e conquistano il Passo della Sentinella, sfidando la “morte bianca” e mille altri pericoli. E’ una guerra condotta su due fronti: contro gli austriaci da un lato e contro la natura dall’altro, in un susseguirsi mozzafiato di episodi tragici ed eroici. Il tutto raccontato con asciutta sobrietà di stile, da cui tuttavia traspare, incontenibile, un’ammirata commozione.
La valanga di Selvapiana - giunto ormai alla sua terza edizione - ha vinto inoltre ilPremio Internazionale Città di Gaeta.


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Addio a Lino Lacedelli

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Lino Lacedelli: storia di una vita

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È stato il primo a conquistare la vetta del K2 e per questo, insieme ad Achille Compagnoni, è passato alla storia. Lino Lacedelli, classe 1925, ha firmato innumerevoli salite sulle Alpi, specialmente sulle Dolomiti, ed è stato uno dei padri dell’alpinismo italiano e internazionale. Lo ricordiamo qui, attraverso le tappe più importanti della sua vita sui monti e le foto scattate in alcuni momenti più importanti come nel cinquantenario della prima scalata della “montagna degli italiani”.
Lino Lacedelli nasce il 4 dicembre 1925 a Cortina d'Ampezzo, ai piedi delle Dolomiti bellunesi. Dalle montagne rimane subito affascinato, e all'età di 14 anni si avventura per la sua prima scalata sulle Cinque Torri, le vette che si innalzano proprio dietro casa. Scala in libera, senza usare alcuna corda e con le scarpe chiodate. Contravviene agli ordini del padre e mentre sale supera la guida Simone Lacedelli, legato con due turisti inglesi. E come riferiscono i suoi amici del sito degli Scoiattoli di Cortina, “per poi buscarle sia dall’uno che dall’altro".

Era il 1939, e proprio in quell'anno una decina di giovanissimi ragazzi fondavano l'Associazione alpinistica di Cortina, il gruppo degli Scoiattoli, di cui fu membro illustre Lacedelli.

Innumerevoli le salite per cui viene ricordato, anche se quella per cui è diventato famoso in tutto il mondo, uscendo dalla nicchia alpinistica ed entrando nei libri di storia, è la conquista del K2 del 1954, dove arrivò in vetta insieme ad Achille Compagnoni. Lacedelli a 29 anni diventava il primo uomo a mettere piede sulla seconda vetta della terra, la montagna degli italiani.

Quando fu convocato da Ardito Desio per questa straordinaria avventura, Lacedelli era giovane e scapolo, lavorava come idraulico, guida alpina e maestro di sci, con un'intensa attività alpinistica in Dolomiti, specialmente sulle Torri di Lavaredo, Tofane, Marmolada e Civetta, ma anche sul Grand Capucin, e sul Badile.

Già un ottimo curriculum quindi, anche se la vera svolta non poteva cha arrivare con la salita del 1954. Lacedelli ricordava il capo spedizione Desio come "un capo molto accorto ma anche molto duro, penso che fosse anche per la situazione difficile in cui ci trovavamo. Quando scendevamo dai campi alti, stanchi e dopo molti su e giù, capitava che ci rimproverasse per una dimenticanza o un'imprecisione. Sono tensioni, però, che si vivono in tutte le spedizioni. Devo dire che era sempre attento all’organizzazione ma anche alle nostre esigenze: ci ha sempre aiutati anche moralmente, e questo è stato molto importante per la riuscita della spedizione”.

Per il cinquantenario di quella salita l'alpinista di Cortina tornò al K2, dove sono state fatte alcune delle foto che trovate qui sotto nella galleria, scattate dalla spedizione K2 2004.  Il 2 dicembre dello stesso anno fu nominato Cavaliere di Gran Croce, Ordine al Merito della Repubblica Italiana, dal Presidente della Repubblica Carlo Azelio Ciampi, e gli fu consegnata la Medaglia d'oro al valor civile.

Tante altre poi le vie che portano la sua firma e le salite importanti, soprattutto sulle Alpi. La scalata della parete sud-ovest della Tofana di Rozes nel 1947, la difficile via sulla Cima Scotoni aperta nel 1952 con Luigi Ghedina e Guido Lorenzi. L'anno dopo la prima salita invernale sulla Croda Rossa, mentre nel 1959 scala il terribile spigolo nord-ovest della Cima Ovest di Lavaredo, detto poi Spigolo Scoiattoli".

E poi ancora molte altre prime salite ed eccezionali ripetizioni. Così tante che è impossibile ricordarle tutte e forse non è neanche importante farlo. Quello che invece è importante ricordare è il volto e l’esperienza di vita di uno straordinario scalatore, che ha fatto la storia dell'alpinismo italiano e mondiale.

Valentina d'Angella


Tratto da montagna.org

Vedere anche: E’ MORTO LINO LACEDELLI






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Alpinismo estremo ed etica. E il valore della vita?

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BERGAMO – “Stile alpino”, “esplorazione”, “via nuova” e “leggerezza”. Ecco l’abracadabra dell’alpinismo odierno. Parole che solo a pronunciarle ti proiettano nell’elite degli alpinisti quelli veri, e che se applicate ti dispensano da qualsiasi critica perché rispondono all’etica alpinistica “giusta”. Ma, dopo l’ennesimo incidente mortale dell’anno, la domanda è inevitabile. Fino a che punto ci si può spingere? E’ giusto che nel nome di quest’etica assolutista si sottovaluti il valore della vita, o addirittura gli si giochi contro?

Siamo i primi ad amare la montagna, l’alpinismo e tutto ciò che vi ruota intorno. Lo dimostriamo tutti i giorni, nel bene e nel male, raccontando le loro storie. Lungi da noi l’intenzione di dar corda a chi usa l’infelice espressione della “montagna assassina” o a chi vede gli alpinisti come dei pazzi suicidi. Ma nei giorni scorsi ci siamo chiesti se non esista un limite.

La risposta a chi si sta domandando se non stiamo esagerando sono questi nomi. Tomaz Humar, Michele Fait, Roby Piantoni, Max Schivari, Serguej Samoilov, Oscar Perez, Piotr Morawski, Franc Oderlap, Cristina Castagna, Wolfgang Kolblinger, Go Mi Sun. E altri ancora. Non è la formazione dell’ultimo “dream team” diretto in Himalaya. Ma l’elenco dei morti degli ultimi mesi. Mesi, non anni.

“Scrivete sempre di morti”, è la frase che sentiamo ogni volta che succede un incidente. Quasi che la responsabilità dei fatti sia di chi li racconta e non di chi li fa. Quasi dovessimo far finta di niente, e continuare a guardare con i paraocchi un alpinismo idilliaco che sempre più spesso si trova a fare la conta dei caduti come un esercito in guerra. No, cari lettori. Questo non è giusto. “Noi non andiamo in montagna per morire, andiamo per vivere”, gridava Kurt Diemberger nel film “Karl”.

Ed è per questo che solleviamo la questione. Non per giudicare, ma per pensare. Per capire se questa “libertà assoluta” non sia in realtà una trappola. Una moda pericolosa, che attrae e poi tradisce. Siamo stati i primi a schierarci contro chi, di fronte alle tragedie dell’anno scorso, identificava la montagna e soprattutto gli ottomila come luogo di morte. Il dubbio è se non siano gli alpinisti stessi, in certi casi, a farlo diventare tale.

Ieri sera dipingevo, al corso di pittura, un ritratto di Simone Moro. Cinque dei trenta spettatori, tutti a digiuno di alpinismo, vedendo tuta d’alta quota e guanti, hanno chiesto orgogliosi del loro intuito: è Marco Confortola? No, dico io, è Simone Moro. Facce perplesse, nome mai sentito. Magari conoscono di più Confortola perché è della zona. Chiedo: seguite l’alpinismo? No, dicono loro, è quello a cui hanno tagliato i piedi. Non sapevano nemmeno cosa fosse il K2. Ecco l’immagine dell’alpinismo che ha la gente.

Cesare Maestri, uno che di certo non si è risparmiato in fatto di sfide al sapore di adrenalina, mi ha detto in una intervista, senza un attimo di esitazione, che “l’alpinista più grande di tutti i tempi è quello che rimane vivo”. Una lezione dimenticata?

Lo chiediamo a voi. Non pretendiamo di giudicare. E restiamo convinti che lo stile alpino, pulito e rispettoso della montagna, sia la massima espressione dell’alpinismo. Ma ancor più in alto ci dovrebbe essere il rispetto della vita. Vi chiediamo fino a che punto si debba arrivare nell’inseguire un’autodeterminazione senza limiti, un sogno a qualsiasi costo, un alpinismo che se non è senza tutto, anche senza la sicurezza dove è possibile averla, non è alpinismo.

Nei giorni scorsi parlavo con alcuni dei più forti alpinisti italiani, che stanno pianificando spedizioni per il prossimo anno. Spedizioni esplorative, ispirate allo stile alpino. Discutevano con approvazione di portarsi un medico al campo base. Negli stessi giorni, Humar, da solo su una parete sconosciuta, con un cuoco al campo base, telefonava in Slovenia per lanciare un Sos dall’altra parte del mondo. Il terzo della sua carriera. Il terzo e, purtroppo, il fatale.

Senza voler condannare nessuno, queste cose fanno sorgere delle domande. Allora i primi sono dei “vigliacchi” che non osano l’estremo, oppure è gente che ha imparato qualcosa dalla sua esperienza? E sì che tra loro c’era chi ha fatto la Sud dell’Annapurna, chi ha aperto vie nuove su ottomila e chi ne ha collezionati a iosa senza ossigeno. Nell'arrampicata le massime prestazioni, 8c, 9a e via dicendo, vengono compiute con corde e spit, e non per questo valgono poco. Perchè in Himalaya deve mancare tutto? Un paio di settimane fa ad un convegno qualcuno paventava il fatto che le previsioni del tempo e l'uso del telefonino dovessero essere considerate addirittura una forma di doping.

Ecco perchè ci si chiede se non si stia esagerando. E’ normale vedere il rispetto della vita come un limite alla libertà personale? Ci sarà chi vuole rispondere di sì. Ma provate a pensare alla stessa situazione sulle Alpi. O ad altre situazioni della vita, dalla droga alla velocità, all’uso dell’alcol, dove a volte si invoca la “libertà personale” per giustificare comportamenti discutibili,. La storia ha ampiamente dimostrato come l’idealizzazione della libertà assoluta dell’individuo, spinta all’estremo, non porti che alla confusione di valori e a un peggioramento totale delle condizioni collettive.

L’alpinismo sta dunque imboccando una strada di questo genere? Sta tornando brutalmente indietro all’alpinismo eroico dove mettere in gioco la vita è un imperativo e non un’evenienza a cui opporsi con intelligenza e preparazione? Oppure è solo allarmismo dovuto a una fatale catena di incidenti capitati tutti insieme per pura casualità?

Un’ultima domanda, forse ancora più agghiacciante. Riguarda la fama e quanto ne dovrebbe conseguire. Perché l’alpinismo, ormai si sa, fa notizia soprattutto quando c’è un incidente, un soccorso, quando c’è la vita in gioco e la morte diventa un gioco. L’alpinista, danzando sul filo tra la vita e la morte, cerca il senso della vita, oppure, biecamente, la fama?

Di ieri la notizia delle due alpiniste svedesi che hanno truccato le foto per vendere cime mai fatte. Cose contrapposte, se pensiamo alle solitarie estreme di chi non vuole nemmeno che si sappia cosa si è fatto (prima di aver conquistato la vetta, però). Ma non saranno segno dello stesso malessere? Del voler dimostrare di esserci, a costo della morte, per gli ultimi “eroi”, o dell’infamia per i bugiardi?


Sara Sottocornola   




Tratto da montagna.tv



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Simone Moro: più verità e cultura della rinuncia

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immagineBERGAMO -- "E' un discorso difficile, come si fa a impedire la libertà nell'alpinismo, e poi si deve?  Bisogna fare chiarezza e fare cultura, e questa la fanno in primo luogo i protagonisti, che nei loro racconti dovrebbero esaltare un po' di più il valore della rinuncia e dei pericoli che si corrono in alta quota e che si dovrebbero sempre coscientemente evitare e limitare". Questo il parere di Simone Moro sulla questione dell'etica alpinistica e del rispetto della vita.

Sicurezza ed etica alpinistica. Che cosa ne pensi?
Per prima cosa ricordiamoci che la sicurezza molto spesso è data dalle tue abilità e dalle scelte che fai: per esempio di rinunciare quando sei ancora in tempo evitando di farsi accecare dall’ambizione, dallo sponsor  e dalla potenziale  fama.  Anche nel recente e lontano passato abbiamo avuto esempi di voluta e cosciente accettazione di rischi elevatissimi rifiutando di rinunciare alla vetta, per poi assistere ad una tragedia annunciata ed prevedibile. I pochi protagonisti sopravvissuti invece di chiedere scusa e di riconoscere gli errori (e dunque fare cultura e capitalizzare per se stessi e gli altri questa esperienza)  si sono venduti come eroi  cercando altrove colpe e responsabilità proprie. Un pessimo esempio di spazzatura alpinistica.
I rischi poi si possono  ridurre e preventivare facendo le cose per tappe, allenandosi come veri atleti, con autodisciplina severa, quasi stoica e non da ultimo  organizzando a tavolino l’eventuale soccorso (e capacità di autosoccorso) - magari prima che tu ne abbia bisogno, oppure  un  opzione B al progetto originario. Però bisogna pensare anche alle condizioni esterne: in Tibet  ed in altissima quota per esempio non c'è l'elicottero, qualsiasi soccorso viene a piedi e spesso da persone non sono per forza acclimatate e rapidamente disponibili.

Il numero di incidenti, comunque, sembra crescere in modo smisurato...
Il discorso è più ampio. Bisogna rendersi conto che oggi sempre più gente muore perchè sempre più gente va in spedizione. Una volta partire per una spedizione era un notizione. Oggi, ce ne sono talmente tante che giocoforza aumenta anche il numero degli incidenti, è una realtà anche statistica. Se guardiamo agli ultimi anni, Piantoni, Unterkircher, Ochoa, Morawski, Fait, Humar... non stiamo parlando di “brocchi” ma della crema della crema. E non è che sono morti perchè sono somari, ma perchè è capitato l'imponderabile. Se fossero stati a casa certo non sarebbero morti con quella dinamica ma non sarebbero stati protagonisti autentici e coscienziosi dei loro sogni e per favore non cominciamo a pretendere di insegnare cosa si deve sognare per se stessi. Semmai il come…. Insomma non c’è una decisione sbagliata dietro la morte dei personaggi che ho appena citato, mentre per moltissime altre tragedie la fine era quasi telefonata….

Un capospedizione può aiutare?
Avere il capospedizione forte, se da un lato può evitare l'anarchia, che ha generato delirio in tante spedizioni, dall'altro devo considerare che nei grossi incidenti recenti, un capospedizione forse non avrebbe potuto far molto, perchè sono capitati in giornate serene e condizioni ottimali, le loro abilità c'erano. Piantoni stava rinunciando, Ochoa ha avuto un edema. Devo dire che non credo molto nell'impostazione che vede il capospedizione a guidare tanti soldatini. Torneremmo alle spedizioni di Desio e a quelle di tipo sovietico, che rispetto ma non amo. L’alpinismo è anche individuo e individualità ed è su questo aspetto che dovremmo lavorare e raccontare in modo autentico (come fatto recentemente al I.M.S. di Bressanone) e non metterci a fare alpinismo militare, di gregge belante, magari a comando.

Nemmeno per le spedizioni dei giovani?
E' vero che ci sono tanti giovani che si lanciano troppo. E' difficile questo discorso, come si fa a impedire la libertà nell'alpinismo e l’irruenza giovanile che è stata propria di tutti noi? Forse facendo della cultura, e la cultura la fanno i protagonisti. Vedo troppa gente che si preoccupa di microfoni e media, prima ancora delle giuste tappe da fare prima di sognare in grande. Insomma io mentre  sto rispondendo a questa intervista ho ancora le mani sporche di magnesio e la sveglia puntata per andare tra poco  a correre due ore dopo questa pausa al PC, e questo tutti i giorni da 25 anni. Come me tantissimi altri protagonisti del mondo alpinistico realizzano e preparano minuziosamente le loro strepitose salite ed i nomi sono quelli che conosciamo tutti.

Sogniamo e progettiamo in  grande ma ci prepariamo in ugual modo e sappiamo comunque di non essere immuni da rischi e pericoli che spesso abbiamo evitato di affrontare quando troppo alti. Personalmente quando poi arrivano i microfoni e sono sul palco racconto proprio di questo, di cosa sta dietro una scalata e dietro queste 41 spedizioni che ho fatto. Quanto è importante avere paura,  rinunciare, palesare gli errori, essere autocritico prima che critico verso gli altri. Anche Messner diceva che su 30 spedizioni, un terzo sono state rinunce ed io sono cresciuto ed ho sognato basandomi su questo grande insegnamento che veniva proprio dal numero uno. Forse è il caso di esaltare un po' di più il valore della  fatica e della rinuncia, e forse qualcuno avrà meno vergogna a dirlo e andrà meno all'arrembaggio.

Un parere sull'alpinismo esplorativo...
Per fare un alpinismo esplorativo e di valore assoluto ( ovviamente mi riferisco ai professionisti o aspiranti protagonisti ) oggi non basta più fare le cose difficili di una volta. Bisogna alzare il livello personale e delle propre salite sempre di più, esattamente come l’asticella del salto in alto. Ma non deve essere una roulette russa, un alpinismo Kamikaze. Bisognerà rivedere tattiche, stili, tempi. Bisogna sempre tener presente che in quota non volano elicotteri, sono difficili, quasi impossibili i soccorsi, per lo meno in tempo utile. Quindi sarà sempre potenzialmente più pericoloso, bisogna stare sempre più con le antenne dritte, con una preparazione assoluta, la giusta dose di paura e  acuta capacità d’analisi. Sicuramente non basta un capospedizione col binocolo per sostituirsi al buon senso, pilotare le scelte in parete ed evitare i rischi. Non serve il poliziotto al campo base che  mi dica cosa e come devo scalare ma ci vuole un giusto atteggiamento personale.
Certo, alcuni personaggi, comportamenti deplorevoli  e tragedie annunciate, andrebbero accusate apertamente dalla comunità alpinistica ed isolati i protagonisti, ignorati e lasciati soli  a riflettere. Invece sono i personaggi  più gettonati e richiesti anche all’interno del nostro ambiente e questo la dice lunga su come siamo noi stessi i primi da educare.

Quale potrebbe essere, secondo te, la soluzione?
Siccome tutti noi abbiamo iniziato a fare alpinismo leggendo e sognando sui racconti del passato, sarebbe bello leggere ed esaltare le vere grandi gesta ( come avviene specialmente  nei paesi anglosassoni o dell’est), fatte da gente pulita , preparata, umile e rispettata, come pure le grandi gesta di rinuncia, di avventure senza vetta ma di valore tecnico ed umano, di esplorazioni fatte non per il record ma per la ricerca dello sconosciuto, di dare luce a ciò che era ancora buio . Sarebbe bello che gli alpinisti nelle loro serate raccontassero spesso  delle paure, dei pericoli accettabili ed accettati, degli errori da cui hanno imparato e non solo dei  loro successi o presunti tali. Altrimenti i giovani vedono solo campioni e falsi eroi e vogliono essere anche loro tali, con gli stessi mezzi, magari con poca fatica ed umiltà e la sola propensione a fare cassa.

Sara Sottocornola



Tratto da montagna.tv



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Montagne da raccontare

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Tratto da montagna.org



"Un viaggio tra montagne e personaggi, una voce interiore che racconta un alpinismo classico tra neve e ghiaccio, sulle Alpi ed in Appennino, per guardare dentro noi stessi ed il mondo attorno". Ecco il primo libro di Davide Chiesa, alpinista piacentino che ha all'attivo numerose salite sia italiane che extra europee lungo vie normali, pareti Nord e vie nuove nonchè la scalata di oltre 130 cascate di ghiaccio.





"...ci sarà chi non si fermerà mai dal raccontare. Ci saranno sempre storie talmente interessanti da essere ascoltate, da essere seguite..."


Detto e fatto. Davide Chiesa, dopo aver pronunciato queste e altre affermazioni durante le numerose conferenze sull'alpinismo in giro per l'Italia, ha deciso di mettere su carta tutto il suo amore per le montagne.


"Montagne da raccontare" è un avventura tutta da scoprire stando comodamente seduti sulla propria poltrona. Una prefazione scritta dall'illustre alpinista austriaco Kurt Diemberger ci introduce in quello che sarà "una specie di diario molto originale scritto da un alpinista che non sogna e non parte per imprese spettacolari, ma è felice di scoprire l'ignoto anche sulle alture davanti alla porta di casa".


Più di un diario, più di un album fotografico, Chiesa prende per mano il lettore e lo accompagna su alcune delle cime che ha scalato: dall'Adamello al Monte Bianco, dalle Ande boliviane all'Appennino piacentino. Una continua ricerca e una continua sfida descritta in 224 pagine e 200 fotografie sia a colori che in bianco e nero.


I contenuti non sono di difficile comprensione. Non si tratta di un libro infarcito di tecnicismi, ma pieno di esperienze autentiche e avventurose, a volte ironiche, a volte commoventi. Le fotografie che corredano i testi non sono una semplice aggiunta, ma un modo per trasmettere le proprie sensazioni, mostrarle con estrema nitidezza.


Davide Chiesa, piacentino, è al suo primo libro. Noto per le numerose conferenze sull'alpinismo che tiene in tutta Italia, ha scalato più di centotrenta cascate di ghiaccio.



Pamela Calufetti

http://www.montagna.org/it/content/montagne-da-raccontare



 
 Titolo: Montagne da raccontare
Storie di Ghiaccio, di Avventure, di Uomini
Autore: Davide Chiesa con prefazione di Kurt Diemberger
Edizioni "Idea Montagna Editoria Alpinismo" (Padova)
Pagine 224 di cui 64 tavole a colori
Prezzo: 20,00 Euro



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L’IMPORTANZA DELLA VITICOLTURA DI MONTAGNA

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Interviste video ed audio a Francois Stevenin e Gianluca Macchi

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Colle di Vers (2862 m) Valle di Bellino (IT)

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Siamo in Val Varaita nella valle laterale di Bellino. La giornata non si preannuncia splendida. Un sole caldo, che presto ci abbandonerà, un cielo azzurro che diventerà grigio, poche nuvole che chiameranno le loro amiche per dar vita ad una piccola “nevicata”,  i prati ricoperti dalla prima neve e un torrente impetuoso. Dal parcheggio, vicino al Rifugio Melezè, raggiungiamo l'abitato di Sant'Anna. La strada è ghiacciata. Superiamo il ponte e il parcheggio estivo e arriviamo al bivio che ci porta ai piani Traversagn, in prossimità del torrente Varaita, ci incamminiamo sulla stradina che sale a tornanti verso sud. La sterrata estiva, che é innevata e in alcuni casi una lastra di ghiaccio, ci fa giungere sull’ampio e lunghissimo pianoro del Traversagn (vasto pianoro, disseminato di alpeggi e baite, decisamente fiabesco questa stagione). Una rapida sosta per ammirare la grandiosa parete nord della Marchisa, con le sue caratteristiche due vette. Attraversiamo il lungo pianoro lasciando la strada alla nostra sinistra. Saliamo puntando verso il gran dosso a destra della Rocca. Inizia ad esserci molta neve. Mettiamo le “ciaspole” e continuiamo a prima con un traverso, poi con con un guado di torrente, ricoperto di neve, verso la punta. Siamo all’ ultima rampa prima del colle (d’estate una pietraia di  sfasciumi: si capisce causa la poca neve, portata via dal vento, che fa intravedere ciò che c’è sotto). Ops … inizia a nevischiare… mancano poco più di 100 metri. al colle. Un rapido conciliabolo per decidere se proseguire verso il colle e la Rocca in funzione del tempo ormai inclemente. Ci facciamo forza e decidiamo la conquista del primo. Arriviamo al colle di Vers, a 2862 metri, che rappresenta il vero spartiacque tra le valli Varaita e Maira. Il panorama è veramente mozzafiato, nubi basse verso la Valle Maira, si intravede la cresta della Rocca, forse il “Chersogno”, forse qualcos'altro... Il tempo sta peggiorando ancora la neve trasportata dal vento si trasforma in nevicata. Dopo tanta fatica in fila indiana lasciamo il colle di Vers e ripercorriamo i lunghissimi pendii innevati verso il fondo valle. Il pranzo… il pranzo è contemplato nella gita ma quasi al ritorno alla macchina. Siamo all’inizio del piano Traversagn. Per fortuna non nevica più, anzi si sta aprendo. Ripartiamo. Mi correggo sul tempo… sono risalite le nuvole, un tempo da lupi; per fortuna mancano solo 200 metri alla macchina e ad una buona tazza di tea caldo.
Grazie ad Alberto per la bella gita fatta.



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Francys Arsentiev, storia d'amore e tragedia

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Li chiamavano "Romeo e Giulietta della guerra fredda". Lui russo, lei americana. La loro storia, fatta di amore, morte e aria sottile. Parliamo di Francys Distefano, la prima donna americana ad aver salito l'Everest senza ossigeno, e Sergei Arsentiev, considerato uno dei più forti alpinisti della storia. La loro salita all'Everest fu il loro più grande successo e la loro condanna a morte. Francys, scendendo, si è accasciata a 8.600 metri, in preda ai deliri dell'alta quota. Vi rimase, agonizzante, per due giorni: accanto a lei passarono tanti alpinisti, ma solo il marito tentò disperatamente di salvarla, riuscendo a risalire dall'ultimo campo dopo ben 5 giorni passati nella zona della morte. Un gesto eroico, che è gli costato la vita.

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Moro e Urubko: nuova via al Lhotse

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BRESSANONE, Bolzano -- Tornerà presto in campo la formidabile cordata italo-kazaka di Simone Moro e Denis Urubko, che lo scorso febbraio ci ha fatto sognare con la prima salita invernale del Makalu. Accadrà la primavera prossima, l'obiettivo sarà una nuova via sul Lhotse, 8.516 metri, la quarta montagna più alta della Terra. Lo ha annunciato lo stesso Moro, pochi giorni fa, all'International Mountain Summit, il grande evento di montagna e alpinismo che la scorsa settimana ha radunato centinaia di appassionati al Forum di Bressanone.

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