Arrampicata: "Qual è il nostro grado?"

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Ecco la magica domanda… qual è il nostro grado? Non è un concetto facile come sembra, ma possiamo trarre informazioni da altri sport atletici. A tale questione si può rispondere dicendo di aver scalato fino al grado massimo effettuato in una delle 4 possibili prestazioni.(Se avete provato un 6b in moulinette, ma siete in grado di fare dei 5c in libera… 5c è il vostro grado!)
È anche possibile sottolineare quale sia il proprio livello a vista, che, di norma, è sempre inferiore al grado lavorato. Uno scalatore che ad esempio sia in grado di percorrere delle vie a vista di 6b, è possibile che sia in grado di effettuare dei tiri di 7a lavorati in 3-4 giri. Il livello a vista per alcuni è molto più etico ed importante del lavorato, anche se oggi si tende a valutare molto di più quest’ultimo.
Filosoficamente parlando, il vero grado che si gestisce è molto simile a quello a vista. Di norma uno scalatore che sia in grado di effettuare dei tiri su almeno 7-8 tipologie di roccia diverse, tutti sullo stesso livello, ha ben in mente che grado può fare. Un arrampicatore che magari è capace di fare del 6c/7a su morfologie e rocce differenti, è possibile che sia in grado di ripetere delle vie molto lavorate di 7b su rocce congeniali con morfologie congeniali.
Com’è ovvio ci sono atleti che preferiscono gli strapiombi ed altri le vie verticali od appoggiate. C’è chi preferisce le line classiche con lame, fessure e diedri e chi le placche o le vie su canne o buchi. C’è chi ama i tiri continui è che preferisce quelli con sezioni boulder. «A ciascuno il suo».
L’arrampicata si è evoluta nel tempo anche per via dell’avvento delle palestre sintetiche e delle specifiche sale boulder. Oggi ci sono atleti specializzati e quindi ad esempio avremo placchisti, strapiombasti, ecc…
Si può quindi dire che, se volete valutare la vostra massima prestazione, avete i mezzi per farlo. Se vi preparate per fare qualche multipitch, cioè via lunga a più tiri, valutate bene il vero grado che gestite, specialmente a vista, e controllate il grado obbligatorio che dovete affrontare tra una protezione e l’altra ed andrete sul sicuro. Se per esempio volete scalare una via di 6a con un obbligatorio di 5, significa che i passaggi di difficoltà maggiore saranno di 6a, ma che potrete salire lo stesso in artificiale “mungendo” i rinvii come se fossero prese valide. Se però il vostro grado a vista, quello che gestite davvero, non è superiore od uguale al 5, non riuscirete a percorrere i metri in libera tra chiodo e chiodo. Sia ben inteso, se salite una linea di X metri tirando i rinvii, ciò non significa che avrete fatto comunque la via lunga… perché anche in quel caso «C’è uno ed un solo modo per effettuare una via in libera». Potrete dire di aver salito la linea in artificiale.
Con regole oneste avrete i termini per capire se siete in grado o meno di salire su un itinerario di scalata, anche perché in via lunga non sempre le protezioni sono piazzate come in falesia…
Testo tratto da “Onde di Pietra” di Christian Roccati e Fabio Pierpaoli)

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Aperta la prima centrale elettrica a idrogeno

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“L’Enel ha inaugurato la prima centrale per la produzione di energia elettrica alimentata a idrogeno”, scrive il Wall Street Journal.

“La società italiana cerca di aumentare le proprie credenziali ecologiche in vista della vendita, prevista per l’autunno, della sua unità per le energie rinnovabili. L’impianto si trova a Fusina, vicino a Venezia. È in grado di generare 16 megawatt di energia e di soddisfare il fabbisogno energetico annuale di ventimila famiglie”.


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Punta Parrot (4436 m) – Valle di Gressoney (IT)

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Per la seconda escursione “glaciale” dell’estate 2010 il nostro obbiettivo è la Punta Parrot (4436 m) splendida piramide nevosa in quel del Monte Rosa. Abbiamo solo letto qualche recensione sulle possibili vie di salita ma non abbiamo ancora un’idea precisa del nostro itinerario, siamo solo diciamo preparati psicologicamente a dover camminare a “cavallo del cielo”.
E così venerdì 09.07 eccoci all’arrivo della funivia di Punta Indren pronti con tutta calma a dirigerci verso la Capanna Gnifetti dove pernotteremo. In circa due ore raggiungiamo la nostra meta – è una splendida giornata di sole – e così passiamo le ultime ore del pomeriggio ”svaccati” sulle panche del rifugio a prendere il sole, pasteggiare con prelibate crostate e soprattutto bere litri e litri…………. di acqua che torneranno a farci compagnia durante la notte – alias frequenti visite ai peraltro “panoramicissimi” servizi della Capanna.  Arriva così presto ora di cena e … che cena !  Scelta tra lasagne , vari tipi di pasta e secondi di tutto rispetto come pollo ai peperoni piuttosto che polenta e spezzatino! Tempo di fare due chiacchiere e l’abbiocco prende il sopravvento - una lunga dormita è il toccasana per essere pronti a raggiungere la nostra cima l’indomani.  Sabato 10 la sveglia suona alle 4.00, abbondante colazione, ”cauta” vestitura (si sa con il sonno e il buio, il rischio di un a tete a tete con ramponi e piccozza e sempre in agguato) e si parte …  Alle 8.00 siamo al Colle del Lys - dove il mal di testa è di casa -  ma incredibile ma vero basta allontanarsi di qualche centinaio di metri e magicamente scompare. Siamo all’attacco della Punta Parrot – abbiamo infatti deciso di salire dal Colle Sesia per poi ” fifa permettendo” scendere al colle delle Piode .  La via è abbastanza ripida ma fattibile , in 20 minuti circa siamo in cresta e… qui comincia il bello! Dapprima si cammina in salita qualche metro sotto le enormi cornici della cresta che via, via si fa più affilata fino a ritrovarsi appunto a “cavallo del cielo “! Siamo in vetta  ce ne accorgiamo perché ormai non c’è più niente da salire … si continua in piano ancora per un po’ e poi si inizia a scendere sempre su filo di cresta facendosi da parte ogni qualvolta si incontra un’altra cordata in salita ( per fortuna ne abbiamo incontrate poche…) . Quando la pendenza sarebbe troppo ripida per proseguire si devia sulla sinistra per un pendio di circa 45° – ripido appunto-  ma ben scalinato da chi ci ha preceduto e… finalmente i nostri piedi sono di nuovo per terra.  Che dire? Un’altra splendida giornata di montagna su una cresta affilata ma veramente spettacolare!


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ANGELO URSELLA A 40 anni dalla morte

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Mattina del 14 luglio 1970. Tempo splendido. Due alpinisti friulani, Angelo Ursella di Buia e Sergio De Infanti di Ravascletto, provincia di Udine, stanno scalando la parete nord dell’Eiger. La sera si fermano a bivaccare su un terrazzino poco sopra il “Ragno”. A mezzanotte inizia a nevicare e continuerà per tutto il giorno seguente, mercoledì 15.
A metà pomeriggio di giovedì 16 ripartono; non possono più attendere, sono senza viveri e il tempo si è un po’ quietato. A poca distanza dal nevaio sommitale, Angelo cade e si incastra fatalmente in una fessura. Racconta De Infanti: «È quasi buio; la bufera ha ripreso con intensità ed io non ce la faccio più a tirare la corda. Angelo mi urla di mandargli il sacco da bivacco ed io lo faccio. Tutto ad un tratto mi guardo le mani e vedo una roba gialla mista a sangue che me le ricopre. Come se mi risvegliassi da un incubo, capisco la situazione. Angelo non risalirà più da quella fessura. Con la forza che aveva, anche con il bacino rotto, sarebbe riuscito a tirarsi su con le mani. Invece l’avevo tirato io, solo per pochi metri.» Angelo morirà, causa gravi lesioni al bacino e al torace, nel corso della notte fra il 16 e il 17 luglio 1970 dopo una terribile agonia. Aveva ventitre anni. (Montagne e volontà, diario alpinistico di Angelo Ursella, di Beppe e Italo Zandonella Callegher, prima, seconda e terza edizione 1973-1977, Antiga; la quarta edizione con il titolo Il ragazzo di Buia è di Vivalda, 1994).
Ero al rifugio Lavaredo con i “miei” e lì conobbi Angelo Ursella, venuto fin lassù per trovare amici e compagni di cordata. Il luogo divenne subito un cenacolo e si parlò e si rise fino a tardi. Fuori c’era burrasca. Una mattina ci portammo tutti all’attacco dello Spigolo Giallo. Con uno di noi Angelo fece il primo tiro e tutto finì lì; s’era rimesso a piovere. Ci lasciammo con un appuntamento che si concretizzò un venerdì, o un sabato, non me lo ricordo, ma non ha importanza. Non ricordo neppure l’anno. So che il mese era settembre, rimastomi nella memoria perché fu un mese strano, ricco di pioggia, vento, freddo.
Angelo Ursella e mio fratello Beppe erano saliti di tardo pomeriggio al rifugio Berti in Popèra, la “nostra casa”. Io li avrei raggiunti il mattino dopo, all’alba per salire con loro la via Comici al Campanile 2 di Popèra. Uno spettacolo vedere arrampicare quel ragazzo. Accarezzava, sfiorava leggero la roccia, non la assaliva rabbiosamente. Sulla traversata inferiore, sullo spigolo, sulla traversata superiore, sulla “parete marcia” della vetta… offrì un saggio accademico della sua bravura.
Ritornati al rifugio ci lasciamo trasportare dal buonumore. Angelo gira e rigira il berretto sulla testa dopo essersi accarezzato il ciuffo ribelle. Quando fa così è felice, se no non lo fa e basta!
Ritorna la nebbia. Poi la montagna riprende a piangere, triste e inconsolabile. Parliamo dell’Eiger. Angelo si era convinto che “doveva” farlo. Un’irresistibile richiamo. E infatti lo fece, ma a pochi metri dalla vetta l’Orco l’ha tradito. Ha tradito lui, noi, tutti. La “meteora” Ursella si spegne in un universo pieno di speranze per l’alpinismo italiano.
Sono ritornato molte volte sul Campanile 2 di Popèra, una quindicina, credo, forse più. Una volta, dal profondo dei ricordi, ho visto Angelo risalire i dirupi verticali, fermarsi sulla grande cengia, salutarmi. Mi ha sorriso. Gli ho sorriso. Poi ha continuato ad arrampicare fino a scomparire fra i raggi di un magnifico sole di mezza estate. Ho suonato la mitica campana e sono ritornato a valle.
A quarant’anni dalla morte lo ricorderemo il 18 luglio 2010 sui Brentóni dove, con il ricavato del libro a lui dedicato, gli è stato dedicato un bivacco in segno di sincera amicizia.
Italo Zandonella Callegher

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Chi nel Pdl mi critica si prenda la responsabilità di abbandonare i giovani

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Caro Direttore, leggendo oggi la rassegna stampa mi rendo conto di come gli insulti, le risse e le sceneggiate napoletane verificatesi in Parlamento rischino di coprire la sostanza del ddl del governo sulle Comunità Giovanili, sul quale vorrei provare a fare chiarezza.
Le Comunità Giovanili non sono altro che centri per l’aggregazione dei giovani. Spazi comunali, caserme in disuso, immobili confiscati alla criminalità organizzata, in cui una libera associazione possa svolgere attività di vario tipo. Dallo studio al teatro, dalla musica ai cineforum, dallo sport al volontariato, e molto altro. Il tutto in un contesto democratico di elettività delle cariche direttive, trasparenza nei conti, legalità, assenza di fini di lucro. Tutto qui. Eppure, in queste ore mi è toccato ascoltare una serie incredibile di falsità da parte di esponenti politici chiaramente in malafede o troppo pigri per leggere il disegno di legge. Particolarmente, brucia l’accusa rivoltami di voler destinare fondi a non si sa bene quale realtà amica. Il ddl non stanzia nuovi fondi al mio ministero: i fondi ci sono già, stanziati anni fa proprio per le Comunità Giovanili. Io avrei potuto utilizzarli senza una legge. Invece ho scelto di vincolarli perché possano dare vita a qualcosa capace di sopravvivere al governo Berlusconi o al ministro Meloni. E ho scelto di confrontarmi col Parlamento affinché questa novità fosse il più possibile condivisa.
Poi si può anche dire, come ha fatto qualcuno con espressioni infelici, che in tempo di crisi questa idea per i giovani sia troppo generosa o statalista. Legittimo. A patto che mi si spieghi quale grande emergenza nazionale si risolverebbe con 12 milioni di euro. A patto che nessuno si azzardi più a parlare di «disagio giovanile», «prevenzione sociale», «emergenza educativa» con grandi promesse in campagna elettorale. Questa legge non risolverà il problema del lavoro che non c’è, degli stipendi precari e da fame o della pensione, ma è la prima legge a loro dedicata da almeno tre legislature. È curioso che i più fervidi oppositori del provvedimento, a parte le abituali volgarità di Idv, siano stati alcuni parlamentari Pdl. Investire pochi milioni di euro per dare a migliaia di giovani un’alternativa alla droga e alla criminalità è così vergognoso? Io penso di no e intendo andare avanti.
Del resto, sono solo una persona coerente che non dimentica da dove viene. Racconto questo sogno delle Comunità Giovanili nelle piazze e nelle assemblee studentesche fin dai tempi del liceo. Continuo a farlo da ministro, con la passione di chi crede in quello che fa. Non c’è solo una bella storia politica a supportarmi in questo impegno o la solidarietà generazionale che mi si è riversata addosso in queste ore. C’è anche una promessa fatta a Scampia, in mezzo a palazzoni scrostati e un’aria pesante come il piombo, di fronte a un nugolo di studenti che meriterebbero la nostra mobilitazione, piuttosto che vedere il Pdl scaricare sui giovani, l’anello debole di questo tempo vigliacco, la propria difficoltà a risolvere i conflitti interni.
di Giorgia Meloni Ministro della Gioventù


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JAZZ IN QUOTA: Festival musicale in Val Pellice (TO)

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Il Festival nasce nel 2008 dalla collaborazione tra l’Associazione Casamontagna, i Rifugi Alpini, gli Enti locali della Val Pellice, la Provincia di Torino e la Regione Piemonte, come progetto di promozione del territorio alpino attraverso la cultura e la tecnologia.

Il primo anno si sperimenta l’organizzazione di un concerto in altura trasmesso in streaming live nei diversi Rifugi collegati in banda larga.
Nel 2009 la manifestazione si arricchisce: è l’attore David Riondino ad aprire le serate con un monologo teatrale, nella prospettiva di contaminazione artistica e combinazione di generi voluta dagli organozzatori. Aumentano anche i concerti che si tengono in diversi Comuni della Valle ed è così che Jazz in quota diventa itinerante.
La direzione artistica di Furio Di Castri garantisce la qualità degli spettacoli ed il coinvolgimento di artisti stranieri che fanno del Festival una manifestazione di carattere internazionale.

L’edizione del 2010 si radica ancor più sul territorio coinvolgendo i giovani musicisti dell’Associazione Musicainsieme di Luserna San Giovanni ed offrendo due appuntamenti quotidiani: una marching band ed un “dopo festival” di Jam sessions ospitate nei locali notturni valligiani.


da: Mountain Blog in Cult


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FORMAGGIO ASIAGO DOP: Dalle malghe dell’Altopiano, una storia millenaria

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Torna, sull’Altopiano di Asiago, il rito della monticazione: è la salita agli alpeggi delle mandrie di bovini che, trascorso l’inverno nelle stalle di pianura, con l’arrivo dell’estate vengono portate a pascolare in montagna. La pratica dell’alpeggio, in queste zone, che tradizione vuole vada dal 1° giugno al 21 settembre, vanta una storia millenaria. Viene testimoniata in forma scritta, per la prima volta, in un documento ufficiale del 983 d.C., che riguarda appunto l’assegnazione di terre da destinare al pascolo (“La Via delle Malghe”, a cura di Silvia Dalla Costa e Gianbattista Rigoni Stern). Da almeno dieci secoli quindi, i prati dell’Altopiano sono utilizzati dagli allevatori come risorse foraggere per il bestiame, durante il periodo estivo. Nei primi giorni le mucche vengono fatte pascolare sui prati a più bassa altitudine, dove l’erba è già rigogliosa. Con il trascorrere del tempo l’erba cresce anche a quote più elevate e le mandrie vengono spostate via via più a monte. Un razionale sfruttamento del pascolo prevede che gli animali consumino interamente l’erba di una porzione di pascolo prima di essere spostati. In questo modo vengono sfruttati i pascoli naturali fino a 2.000 m e oltre, contribuendo al mantenimento della biodiversità di una considerevole porzione di territorio di incommensurabile valore.
L’Altopiano di Asiago è il più grande comprensorio di malghe d’Europa. Se ne contano 87 per una superficie totale di pascoli di 7775 ettari. Sono di proprietà collettiva, gestite dalle amministrazioni comunali di competenza, che ne promuovono, ogni sei anni, le gare per la concessione in uso temporaneo. Quando si parla di malga non si intende solo l’edificio in cui si producono, e spesso si vendono, latte, formaggi, salumi, ma anche il pascolo, le strutture e le infrastrutture dove si pratica l’attività di alpeggio. Esse costituiscono un patrimonio economico, storico, ambientale, architettonico e, negli ultimi anni, anche turistico, che è fondamentale salvaguardare. In questo senso, un contributo importante è dato anche dal Consorzio Tutela Formaggio Asiago che, con la sua attività, vigila sulla produzione casearia di sei alpeggi dell’Altopiano soci del Consorzio di Tutela, che producono il formaggio Asiago DOP. L’Asiago delle malghe viene marchiato a fuoco e vi viene apposta sul piatto una speciale “pelure” di carta riso, recante la denominazione ed il logo della DOP, la scritta “Malga” seguita dal nome dell’alpeggio di produzione ed il logo della Comunità Montana “Spettabile Reggenza dei 7 Comuni”.
Le malghe, produttrici di Asiago DOP, sono dunque: malga II Lotto Marcesina (Enego – Az. Agr. L. Tognon); malga I Lotto Valmaron (Enego – Az. Agr. A. e P. Dalla Palma); malga Verde (Conco – Az. Agr. M. Cortese); malga Pusterle (Roana – Az. Agr. S. Basso); malga Larici (Lusiana – Az. Agr. R. Frigo); malga Porta Manazzo (Asiago – Az. Agr. A. Rodeghiero). Questi sei alpeggi si contenderanno, il prossimo 10 luglio, il titolo del concorso annuale per il “Miglior Formaggio Asiago d’Allevo Vecchio e Stravecchio prodotto in malga”, che andrà a premiare un produttore per la categoria Vecchio ed uno per la categoria Stravecchio.

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Weissmies (4017 m) - Valle di Saas (CH)

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È martedì pomeriggio, giornata strana per una persona che lavora decidere di partire per andare in montagna. E, si. Si parte, verso la Valle Ossola. Sono circa le 18:00 e partiamo verso questa meravigliosa valle e precisamente a Trontano (Rifugio Parpinasca) dove andremo a cenare e dormire.
All’incirca alle 20:30 siamo al parcheggio dove si lascia la macchina. Giorgio, la guida alpina che domani ci accompagnerà, è già al parcheggio. Carichiamo le nostre cose e partiamo per il rifugio.


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